sabato 16 ottobre 2010

L’invenzione della tradizione: Quandu te llai la facce


Un caso emblematico di polimorfismo di traduzione
L’invenzione della tradizione: Quandu te llai la facce
Un brano da tutti considerato salentino. Ma è davvero così?


Quandu te llai la facce è un caso emblematico di polimorfismo di traduzione (cioè la coesistenza, nella stessa espressione culturale –per espressione culturale intendo qualsiasi forma di opera, sia essa musicale, parlata, pittorica- o in espressioni culturali simili simili, di differenti forme di trasmissione, nel caso specifico orale-scritto) che evidenzia quanto sia poco attendibile e artificiosa la distinzione in livelli (popolare, colto, semicolto, etc.) di un qualsivoglia testo.
Tracciamone brevemente la storia.
Registrato per la prima volta nel 1921 da Tito Schipa, (PathÈ, New York, col titolo Cuando te aai la faace -fu poi inciso dallo stesso Schipa a Milano nel 1936 col titolo Cuandu te llai la facce....-, rappresenta il brano capostipite della canzone dialettale leccese ed ebbe, nel Salento ma non solo, larghissima diffusione.
La prima domanda da porsi è dunque se questo brano sia da considerarsi popolare o colto, anonimo o d’autore.
Schipa, correttamente, lo ritiene tradizionale tanto è che dopo il titolo, fra parentesi, è specificato traditional e, nella versione successiva del 1936 registrata alla Scala, specifica che è un suo adattamento di un brano popolare.
La poesia dialettale dalla quale fu ripreso è, con molta probabilità, quella trascritta da Casetti e Imbriani nel loro Canti popolari delle provincie meridionali (Torino 1871).
Questo basterebbe a far pensare che sia una canzone propria dell’area meridionale d’Italia. In realtà così non è: Ermolao Rubieri nel suo Storia della Poesia popolare italiana, (Firenze 1877) raccoglie e trascrive diverse varianti del brano, diffuso un po’ in tutta Italia..
Oltre alla variante di Lecce e Caballino (“La ‘nnamurata mia se chiama Nina; / Nina e Ninella la voglio chiamare! / Cu l’acqua ci te lavi la matina, / Te pregu, Nina mmia, nu’ la menare; / Addu la mini nci nasce ‘na spina, / ‘Na rosa e ‘na rosetta ppe’ durare; / Nde passa lu speziale e nde la cima, / Medecina nde face ppe’ sanare”, che poi è quella riportata sul Casetti Imbriani), egli ne trascrive una versione siciliana ( “[…] Si canta a Termini: Oh, quantu è beddu lu nume di Nina, / Ca sempre Nina vurrissi chiamari / L’acqua ccu cui ti lavi la matina, / Bedda, ti pregu non la ettari: / Ca si la jetti ni nasci ‘na spina, / Nasci ‘na rosa russa ppi curari / Li medici ni fannu midicna, / La dannu alli malati ppi sanari”)  una marchigiana (“Alcuni nello stesso paese sostituiscono i nomi di Rosa e Rosina a quelli di Nina e Ninella. […]. Con poche variazioni la cantano a Sturno nel Principato. Nelle Marche invece la cantano quasi tal quale: E tu per nome che ti chiami Nina, / Sempre per Nina te voglio chiamare. / L’acqua che ti ci lavi la mattina, / Ti prego, Nina mia, non la buttare; / E se la butti, buttala al giardino, / Ci nascerà un bel giglio e un gelsomino; / E se la butti, buttala al giardino, / Che ci fa l’acqua rosa lo speziale; / Lo speziale ci fa acqua rosata, / Per guari’ Nina sua, quand’è malata”), una toscana (Così si canta in Toscana: Bella ragazza che ti chiami Nina, / Sempre Ninetta ti voglio chiamare / Coll’acqua che ti lavi ogni mattina, / Ti prego Nina Mia, non la buttare, / Che se la butti, ci nasce una spina, Ci nasce una rosetta…“), una variante più breve e umoristica veneziana (“L’acqua che ti lavi el pèto e’l viso, / Te prego, bela, via no la buttare; / Le sarà bona a intemperar lo vino / Quando sarèmo a -tota per disanare-”) e, infine, una istriana (“L’istriano accoglie l’idea veneta, ma la ingentilisce moltissimo: Bela, cu ti te livi la mitina / Na sula grazia i’te voi demandare; / L’acqua che ti lavi el pianse viso, / Te prigo, bela mia, nun la butare; / Dàmela a mi, ch’intempero lo vino, / Quando ch’i vado a tavola a disanare; / E la tu acqua sarò frisca e clara; / Come la tu persona, anema cara”).
Possiamo dunque trarre almeno le seguenti conclusioni:
a) È chiara non solo la provenienza orale del testo ma, addirittura, abbiamo la certezza che fosse diffuso in tutta la penisola e non sia dunque solo meridionale o salentino;
b) allo stato attuale la versione più nota rimane quella di Tito Schipa;
c) le melodie antecedenti alla registrazione di Tito Schipa sono scomparse, al loro posto è divenuta tradizionale e popolare (per diffusione) la versione del tenore leccese.
Una versione successiva a quella di Schipa è contenuta nella raccolta di canti popolari curata dal dopolavoro di Gallipoli (1934) -a proposito del brano in questione, mi pare opportuno riportare alcuni passi di una breve corrispondenza avuta con il maestro Fabio Primiceri per tramite dell’ing. Gianni Carluccio. Dopo aver sottoposto lo spartito del brano ed aver chiesto se la melodia potesse corrispondere a quella di Schipa egli ha risposto di sì. “tranne nelle battute 7, 8, 9, 10, e dalla 16 alla fine”, aggiungendo che “in alcuni punti sembra essere una parte corale affidata ad un’altra voce, in quanto è difforme dalla melodia che tutti conosciamo”.
A riprova del fatto che la versione di Schipa abbia fatto scuola si consiglia di ascoltare il brano registrato da Bosio e la Longhini nel 1968 (Gianni Bosio, Clara Longhini, 1968 Una ricerca in Salento. Suoni, grida, canti, rumori, storie, immagini, a cura di Luigi Chiriatti, Ivan Della Mea, Clara Longhini, Kurumuny, Calimera 2007), quello proposto da Niceta Petrachi (Niceta Petrachi detta “la Simpatichina”, Malachianta, canti salentini di tradizione orale, Kurumuny, Calimera 2003) o, ancora, i tanti brani di cantanti folk leccesi.
In letteratura, una bella testimonianza del canto è data da quanto scritto in L'Eroe Antico, di Giorgio Cretì:
“Sulla strada incontravano altri carri che pure riportavano a casa donne e tanti erano i carri tanti erano i cori che si muovevano nella sera. Anche con il freddo nel ri torno verso casa, le donne cantavano.
Antonio, se riceveva lo stimolo giusto da arie consone al suo carattere, si distraeva dai suoi pensieri e cantava con le donne: con una voce maschile, anche se ancora non molto marcata, il coro acquistava più vigore. Quando si lasciava trasportare dalla canzone, cantava il ritornello con tutta la forza della sua voce e si sentiva trasportato lontano lontano e sicuro di sé. Per le ragazze diventava il giovane più desiderabile del paese.
Il cavallo che come le donne era contento di tornare a casa, procedeva ad un trotto lento ma cadenzato, mentre il vento di tramontana prendeva d'infilata la strada. Le donne se ne stavano accucciate sui sacchi pieni, alle spalle di Antonio che ogni tanto stimolava il cavallo ad andare più in fretta.
Quando entrarono in paese, le campane della chiesa chiamavano puntuali alla funzione della sera e il coro si interruppe su questa strofa:
« L'acqua ci te llavi la matina,
te preu Ninella mia nu Ila minare.
A dhu ci la mini tie nasce nna spina,
nasce nna rosa russa pe 'ndurare. »
La bibliografia essenziale dalla quale sono state ricavate queste notizie si limita a
Casetti Vittorio – Imbriani Vittorio, Canti popolari delle provincia meridionali, 1871.
Guastella Serafino Amabile, Canti popolari del circondario di Modica, 1876.
Rubieri Ermolao, Storia della poesia popolare italiana, 1877.
Intendo rivolgere un grazie particolare alla dott.ssa Candida Cossu, della Biblioteca di Lucca ed alla dott.ssa Sandra Zetti, della Biblioteca di Modena. Senza la loro disponibilità non sarebbe stata possibile la stesura di questo breve scritto.



[L’acqua ci te sciacqui a la matina]
tratta dai canti gallipolini pubblicati nel 1934
a cura dell’OND di Gallipoli





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