sabato 31 agosto 2013

Da san Paolo a Dioniso. Appunti per un viaggio a ritroso nel tempo, fra tarantole e totem


Federico Capone, Da san Paolo a Dioniso, appunti per un viaggio a ritroso nel tempo fra tarantole e totem, disponibile con immagini e in pdf su http://www.issuu.com/sataterra e su http://www.academia.edu
Ogni parte di questo scritto può essere ripresa e rielaborata, purché venga citata la fonte originaria.

Intro
Da san Paolo a Dioniso pone le basi per un potenziale studio, più ampio e approfondito, attraverso il quale cercheremo di dare ulteriore dimostrazione di come il tarantismo sia legato al culto di Dioniso e, più in generale, di quanto il culto del figlio di Zeus fosse vivo nel Salento in era precristiana e di come si sia ricontestualizzato (cristianizzato, nel caso specifico, nel corso dei secoli). Per fare questo abbiamo cercato di intraprendere un percorso a ritroso: partendo da san Paolo, che qui rappresenta il risultato finale del processo di ricontestualizzazione / cristianizzazione, arriveremo a Dioniso, soffermandoci, durante questo viaggio nel tempo, sulla figura di Cristo che funge da anello di congiunzione fra il dio greco (ma catalizzatore, questo è tautologico, anche di altri culti e religioni) e il santo cristiano. Accenneremo i primi due passaggi, poiché saranno oggetto di prossimi articoli più approfonditi e puntuali, qui invece proponiamo quanto già pubblicato, rielaborandolo e ampliandolo, in Viaggio nel Salento Magico (Capone Editore 2013).

San Paolo di Tarso
Il percorso a ritroso comincia dunque da San Paolo di Tarso che, pur non avendo conosciuto Gesù ­ – la sua conversione fece seguito alla folgorazione avvenuta sulla via di Damasco ­ –, è considerato il principale ambasciatore del Vangelo fra le genti; proseguendo l’opera di evangelizzazione avviata da Gesù e dai discepoli, gli diviene complementare, fin quasi a sostituirne la figura. Il miracolo compiuto in vita a noi più noto e che lo lega al tarantismo fu compiuto sull’isola di Malta:

«II. Di fatto, acceso un gran fuoco, si ristorarono tutti dalla pioggia che cadeva e dal freddo».
«III. Avendo poi Paolo raccolto de’ sermenti e messili sul fuoco, una vipera uscì fuori, per il calore, e gli s’attaccò alla mano».
«IV. E quando i barbari videro la bestia pendergli dalla mano, dicevan tra loro: ‘Di certo, egli è un omicida, perché, sebbene scampato dal mare, la giustizia divina non lo lascia vivere’».
«V. Ma egli, scossa la bestia nel fuoco, non ne risentì male alcuno».
«VI. Coloro intanto s’aspettavano ch’egli dovesse gonfiarsi e cader morto a un tratto; ma, dopo che ebbero aspettato a lungo e visto che nessun male gliene veniva, mutarono parere, sino al punto di dire che era un Dio».

Il fatto di essere rimasto immune al morso del rettile velenoso lo fa divenire, pertanto, protettore dei tarantati, non bisogna infatti dimenticare che, da Palermo a Sidone (da Goffredo di Malaterra ad Alberto D’Aquisgrana) la tarantola non è per forza un ragno: può essere infatti uno scorpione, una scolopendra e finanche una lucertola, come ci dice Francesco Cacellieri nella sua Lettera.
Ecco dunque, in breve, cosa lega san Paolo al tarantismo ed a Cristo.

Attributi comuni a Cristo e a Dioniso
Ora cercheremo di analizzare il rapporto di Cristo con Dioniso, partendo da un paio di caratteristiche comuni (ma non sono le sole) che rivestono una importanza fondamentale per la nostra indagine:

1) ambedue sono concepiti dalla volontà di un dio, per mezzo di una mortale (Zeus - Semele Spirito Santo - Maria); tale generazione li fa rientrare nell’ambito divino piuttosto che in quello umano; tuttavia, il fatto di essere stati originati da una (non) unione, li pone in una situazione non univoca, di confine, fra morte e vita; da questa ambiguità scaturisce la loro duplicità ed il ciclo perenne vita-morte-rinascita, attraverso il sacrifico. Alcuni vangeli apocrifi parlano di un Cristo spirito ai piedi della Croce, intento ad osservare il suo corpo patire e perire, sacrificato dunque dagli uomini per gli uomini. Anche Dioniso, d’altronde, veniva immolato attraverso l’uccisione di un animale a lui sacro (perché lo incarnava), quali il toro o la capretta, per propiziarne la rinascita che coincideva, poi, con quella della natura. Questo ciclo, proprio di tutti i culti misterici, rappresenta un cammino verso la conoscenza;

2) altro elemento comune è la Croce, simbolo del martirio di Cristo e della cristianità, che, in sostannza era un palo conficcato nel terreno.
Il palo nel terreno simboleggia l’albero che dona la vita, ha molti riscontri nelle società arcaiche: anche Dioniso, come vedremo più fra poco, avrà un particolare legame con tronchi, pietre fitte e più in generale con i simboli totememici.

Dioniso nel Salento
Nicandro di Colofone, autore del II secolo a. C., narra nelle sue Metamorfosi che in un luogo della Messapia, chiamato dei “Sassi sacri” e probabilmente collocato presso i “massi della vecchia”, nel territorio di Giuggianello, ci fu una sfida fra gli indigeni e le ninfe Epimelidi:

«[…] Queste cose sono accadute molto tempo prima della spedizione di Ercole. In quel tempo si viveva con le pecore e i pascoli.
Si racconta dunque che, nella terra dei Messapi, presso il luogo chiamato dei Sassi sacri, apparvero le ninfe Epimelidi che guidavano le danze. I fanciulli messapi, osservandole danzare, abbandonarono le greggi e, dirigendosi verso di loro, affermarono di poter condurre ancor meglio le danze.
Le ninfe non gradirono questo discorso e si gareggiò tra le parti: i fanciulli pensavano di sfidare donne mortali, erano ignari di competere con esseri divini.
I giovinetti avevano una maniera di ballare semplice, rozza, come quella che si addice ai pastori, di contro, quella delle ninfe, si accresceva d’eleganza ad ogni passo.
Vinti i fanciulli così dissero loro: pazzi, avete sfidato le ninfe Epimelidi e, poiché siete stati sconfitti, sarete puniti. Fu così che i pastori messapi, nel luogo stesso ove si erano fermati, vicino al tempio delle ninfe, si mutarono in ulivi: ed oggi, si ode, di notte, una mesta voce proveniente dalla selva, quasi a lamentarsi. Il luogo si appella delle ninfe e dei fanciulli»

Analizziamo ora il racconto di Nicandro di Colofone.
Un primo indizio, per collocare il luogo e il tempo della battaglia ce lo fornisce sùbito l’autore: gli avvenimenti risalirebbero ad epoche remote «molto tempo prima della spedizione di Ercole» in un’età nella quale «si viveva con le pecore e i pascoli».
La spedizione alla quale si fa riferimento è quella che vede impegnato Ercole all’inseguimento dei Titani Leuterni, rèi di aver sfidato Zeus, definitivamente sconfitti a Santa Cesarea Terme.
Prima di arrivare a quella che oggi è Santa Cesarea Terme, sul promontorio della Japigia, Eracle sarebbe passato da Giuggianello e, presso i “Massi della vecchia”, avrebbe lasciato una sua impronta, individuata nel monolite lì presente la cui forma richiama quella di un piede dalle forme gigantesche; non solo, opera sua sarebbe anche il “Masso oscillante d’Ercole” del quale parla Aristotele nel De Mirabilibus Auscultationibus: «Nella Japigia, vi è una pietra talmente grande da non poter essere caricata su alcun carro. Tale masso è stato alzato e trasferito lì da Eracle, ed attualmente basta un solo dito per muoverlo», la tradizione popolare locale, lo identifica nel così detto “Furticiddhu della Vecchia e de lu Nanni” (“il fuso della strega e dell’orco”).
Ma torniamo alla leggenda, che esalta i comuni attributi fra le Epimelidi e Dioniso: ambedue sono protettori delle greggi, degli alberi ed hanno una spiccata attitudine al ballo, lo stesso Dioniso è sovente raffigurato nell’atto di uscire da un tronco d’albero così come ci dice anche Frazer (ma un riscontro l’abbiamo trovato anche in un vaso nolano, si veda immagine in copertina) nel Ramo d’Oro, quando afferma che «in un vaso la sua rozza effigie è rappresentata sorgente fuori da un alberetto o da un cespuglio. Si dice che un’immagine di Dioniso fosse stata trovata a Magnesia, sul Meandro (Magnesia al Meandro, ndr), in un platano rotto dal vento. Era il patrono degli alberi coltivati, gli si offrivano preghiere perché li facesse crescere, ed era venerato specialmente dagli agricoltori, sopratutto frutticoltori, che innalzavano la sua immagine nei loro frutteti in forma di un tronco d’albero naturale.
Si diceva che fosse stato lui a scoprire tutti gli alberi da frutto, specialmente i meli e i fichi. Lo chiamavano il multi-fruttifero il dio dai verdi frutti, colui che fa crescere i frutti.
Uno dei suoi titoli era il fecondo o il germogliante; vi era nell’Attica, a Patra, in Acaia, un Dioniso floreale e gli Ateniesi gli sacrificavano per la prosperità dei frutti della terra. Tra gli alberi gli era particolarmente sacro, oltre la vite, il pino.
L’oracolo di Delfo comandò ai Corinti di venerare un pino speciale “nello stesso grado del dio”. Ne fecero quindi due statue di Dioniso con le facce rosse e il corpo dorato. Nelle figurazioni artistiche il dio e i suoi adoratori portano comunemente un tirso con una figura in cima. Anche l’edera e il fico erano in special modo associati con lui. Nel demo attico di Acarne v’era un Dioniso dell’edera e a Nasso, dove i fichi si chiamavano meilicha, c’era un Dioniso Meilichio e il volto della sua statua era fatto di legno di fico».
Anche il posto dell’incontro, a nostro avviso, non è casuale: quei “Sassi sacri”, richiamano in toto la Terra d’Otranto, ricca in ogni dove di pietre cultuali (o pseudo-tali) siano esse dolmen o menhir. Questi ultimi, in particolare, potrebbero essere legati alla devozione del figlio di Zeus, non di rado rappresentato e venerato con una semplice pietrafitta (talvolta adorna di rami, a simboleggiare la natura che rifioriva, perché Dioniso era meilichio, ossia propizio, con particolare riferimento all’albero di fico, e dendrites, ossia dell’albero, nato dall’albero) e pertanto potrebbero essere una testimonianza del culto di Dioniso in Terra d’Otranto.
Qualcuno obietterà che molti menhir sono di origine medievale, così come sostiene, in maniera fondata, Paul Arthur. Pur tuttavia, da antropologi, non possiamo sottrarci dall’andare oltre il dato “fisico e visibile”, quindi architettonico-strutturale, e ricercheremo il valore più profondo di queste pietrefitte che, a nostro avviso, coincide col significato cultuale, retaggio, questo sì, di epoche remote.
Un esempio pratico di come il simbolo prevalga sulla funzione, in ambito religioso, è dato dai campanili e dalle campane che, col loro rintocco, segnalano e avvertono. Oggi se ne potrebbe benissimo fare a meno, poiché, a sostituire le campane, basterebbero degli altoparlanti, più economici e funzionali. Eppure resistono, dimostrazione contemporanea di come il simbolo prevalga sulla funzione: la stessa cosa crediamo sia avvenuta per i menhir che hanno, dalla notte dei tempi e fino al Medioevo, conservato il proprio significato cultuale.

Significato attuale del racconto di Nicandro
Ma quella tramandataci da Nicandro è foriera di un messaggio più che mai attuale per gli sprovveduti salentini: come allora pagarono a caro prezzo il voler sfidare un nemico presentatosi sotto mentite spoglie e furono tramutati in ulivi, così oggi, accogliendo la grande imprenditoria, straniera e non, si stanno lasciando trascinare in una sfida già persa in partenza.
A farne le spese, stavolta, potrebbero essere non solo gli uomini, ma anche gli alberi e, più in generale, il territorio, coperto da colate di cemento e da schiere di pannelli fotovoltaici, costretto a dare alloggio a rifiuti e gasdotti, per vedere infine i suoi abitanti tramutarsi in pale eoliche.
Rielaborato da Federico Capone, Viaggio nel Salento magico, (Capone editore, 2013)

lunedì 26 agosto 2013

Lu rusciu de lu mare (il fruscio -rumore- del vento) aka [dha sira]


[Ddha sira] (quella sera) o Lu rusciu de lu mare (il fruscìo del mare)
1. Ddha sira ‘nde passài te ‘nna patula
2. E ‘ntisi le ranocchiule[1] cantare:
3. Lu rusciu te lu mare e’ tantu forte
4. La figghia te lu rre se tàe alla morte
5. Iddha se tàe alla morte e ièu alla vita
6. La figghia te lu rre se sta ‘mmarita[2]
7. Iddha se sta mmarita e ièu me ‘nzuru[3]
8. La figghia te lu rre porta lu fiuru
9. Iddha porta lu fiuru[4] e ièu la parma[5]
10. La figghia te lu rre se ‘ndàe alla Spagna
11. Iddha se ‘ndae alla Spagna e ièu in Turchia
12. La figghia te lu rre e’ la zzita mia.


(1) Ddha sira ‘nde passài te ‘nna patula / (2) E ‘ntisi le ranocchiule cantare: / (3) Lu rusciu te lu mare e’ tantu forte
Quella sera passai da una palude / e udii alcune rane che cantavano: /  il fruscìo del mare è molto forte

Azioni dell’uomo, voce narrante:



(5) Iddha se tàe alla morte e ièu alla vita
Lei muore ed io vivo
Int. Lei muore perché va in Spagna a sposare un uomo che non ama, io vivo perché vado a combattere (e morire) in Turchia nel nome di Cristo



(7) Iddha se sta mmarita e ièu me ‘nzuru
Lei sta prendendo marito ed io moglie

Esplicativa della prima azione:

(9) Iddha porta lu fiuru e ièu la parma
Int. Lei porta il fiore (della verginità) ed io la palma di chi va a morire puro

(10) Iddha se ‘ndae alla Spagna e ièu in Turchia
Lei parte per la Spagna, paese “cattolicissimo”, io in Turchia
Azioni della donna (cantate dall’uomo):

(4) La figghia te lu rre se tàe alla morte
La figlia del re va a morire






(6) La figghia te lu rre se sta mmarita
La figlia del re si sta sposando




(8) La figghia te lu rre porta lu fiuru
La figlia del re arriva “pura” all’altare





(11) La figghia te lu rre se ‘ndàe alla Spagna
La figlia del re parte per la Spagna




(12) La figghia te lu rre e’ la zzita mia
La figlia del re rimane comunque la mia amata


[1] Ranocchiule: sono le rane, ma non solo. In dialetto (o meglio in “codice”) sono così identificate anche le donne abbandonate dal marito o quelle grasse e brutte – cfr. il Dizionario Leccese-Italiano, di Antonio Garrisi –. In questo caso immagino le donne che intonano un canto di dolore mentre lavano i panni, al calar del sole, nei pressi dello stagno, ricordando e sperando che torni il marito partito al di là del mare per combattere la causa cristiana. Il fruscìo del mare è amplificato dal dolore.
[2] Maretare: prendere marito.
[3] ‘Nzurare: sposarsi (dal lat. uxorem ducere), nel caso specifico, in senso figurato, la morte.
[4] Purtare lu fiuru: lett. “portare il fiore”, sta ad indicare la verginità conservata della donna quando arriva all’altare.
[5] Purtare la parma: lett. “portare il ramo di palma”.  Di solito lo porta chi va a morire giovane e quindi “puro”, l’usanza è ancora oggi conservata in alcuni paesi del Salento. La palma può essere anche sostituita, nella Domenica delle Palme, al momento della benedizione, da un ramoscello di ulivo.




mercoledì 14 agosto 2013

VIAGGIO NEL SALENTO MAGICO / / / Recensione apparsa su “Presenza taurisanese / Brogliaccio salentino” del Luglio-Agosto 2013 – Anno XXXI – N.257


Il Salento magico nella “terra del rimorso”

Ci sono libri la cui fortuna è tale da opacizzare tutto quel che li ha preceduti o seguiti. Uno di questi testi è La terra del rimorso di Ernesto De Martino (1961). Un gran libro, uno studio condotto sul campo con criteri scientifici, non c'è che dire. Ma proprio la conduzione sul campo, in presa diretta del fenomeno o di quel che di esso era rimasto, ha trascurato testi fondamentali sull'argomento. Federico Capone, che da anni coltiva studi di carattere antropologico relativi al Salento, offre con questo suo libro-antologia, Viaggio nel Salento magico (Cavallino, Capone Editore, 2013, pp. 144, Euro 10,00), alcune testimonianze importanti, a partire dai miti poetici classici fino all'Ottocento del Nutricati-Briganti, del Gigli e del Castromediano. Vi si leggono testi tradotti in italiano di Goffredo di Malaterra, Alberto di Aquisgrana, Girolamo Mercuriale; Testimonianze di George Berkeley, Antoine Laurent Castellan, Richard Keppel Craven, Girolamo Marciano da Leverano e Giuseppe Morosi. Testi spesso trascurati da quanti ormai considerano il fenomeno un prodotto commerciale cultural-turistico, che fanno giustamente dire a Capone che tradizione e tradimento sono stati confusi. Simili testimonianze, se per un verso non aggiungono novità all'argomento, per un altro lo liberano dall'esclusività salentina del tarantismo e lo collocano in una dimensione più ampia del più vasto mondo del magico. Questo, infatti, è una categoria che afferisce tutte le latitudini, con delle costanti e delle specificità. Questo libro di Capone ci fa conoscere di più e meglio lo specifico salentino “in viaggio” nel suo straordinario universo del fantastico.

Recensione apparsa su “Presenza taurisanese / Brogliaccio salentino” del Luglio-Agosto 2013 – Anno XXXI – N.257

sabato 10 agosto 2013

VIAGGIO NEL SALENTO MAGICO / / / Recensione di Salvatore Esposito apparsa su Blogfoolk di agosto 2013



Federico Capone, Viaggio Nel Salento Magico, Capone Editore 2013, pp. 144, Euro 10,00

Secondo volume della collana “La Terra e Le Storie” diretta da Antonio Errico e Maurizio Nocera, “Viaggio Nel Salento Magico” di Federico Capone, offre un peculiare affresco delle tradizioni della Terra D’Otranto, un sapere ancestrale arricchitosi nei secoli dal passaggio di genti e culture differenti e conservatosi, quasi intatto nell’epoca moderna, quando da cuore dei traffici del Mediterraneo si ritrovò ad essere la periferia dell’Italia. Così tra folletti, streghe, fate, orchi, sirene, e tarante, veniamo letteralmente condotti in un viaggio nel tempo alla riscoperta di fatti di vita quotidiana, usi, costumi e superstizioni che compongono l’immenso mosaico della ricca tradizione popolare del Salento. Si ricompone così il racconto di quella “Terra Del Rimorso” descritta magistralmente da Ernesto de Martino, e non è un caso che larga parte del libro sia riservato al fenomeno del tarantismo, analizzato però in modo differente ovvero presentando un florilegio antologico, che raccoglie testimonianze e documenti preziosissimi che spaziano dal II secolo a. C., con le “Metamorfosi” di Nicandro di Colofone in cui si narra della battaglia a passi di danza combattuta fra le ninfe Epimelidi e i giovani pastori messapi, alle suggestive narrazioni di Goffredo di Malaterra, Alberto di Aquisgrana e Girolamo Mercuriale, in cui si scopre come il tarantismo fosse ben noto anche nel medioevo, fino ad arrivare alla fine del XIX secolo con le leggende raccolte da Giuseppe Morosi nella Grecìa Salentina, e con i documenti dei pionieri dell’etnologia salentina ovvero Trifone Nutricati Briganti, Giuseppe Gigli e Sigismondo Castromediano. Completano il testo l’iconologia della Puglia di Cesare Ripa, i diari di viaggio di George Berkeley, Antoine Laurent Castellan e Richard Keppel Craven, per concludere con Girolamo Marciano da Leverano. “Viaggio nel Salento Magico” è dunque un libro prezioso in quanto attraverso i documenti raccolti da Federico Capone ci consente di scoprire dettagli, storie e piccole leggende popolari che spesso sfuggono all’etnografia e all’etnomusicologia ufficiale. 
Salvatore Esposito 
 
Link d'origine: Blogfoolk
 

martedì 6 agosto 2013

VIAGGIO NEL SALENTO MAGICO / / / Recensione di Barbara Moramarco apparsa su brindisireport.it del 4 agosto 2013


Sulle magiche tracce della tarantola: dal mito popolare alla musica emblema del Salento
di Barbara Moramarco » 4 agosto 2013 alle 07:30
Phonurgia Nova sive Congium Mechanico-physicum artis et naturae Paranympha di Athanasius Kircher- 1673
Phonurgia Nova sive Congium Mechanico-physicum artis et naturae Paranympha di Athanasius Kircher- 1673
Tra pochi giorni il Salento tornerà ad essere travolto dall’energia, il ritmo, le “pizziche” della XVI edizione del Festival itinerante “La notte della taranta” che dal 6 al 24 agosto coinvolgerà quindici comuni. La mitica taranta, nome con cui nella tradizione popolare della Puglia è chiamato il comunissimo ragno dei Licosidi, la Lycosa tarantula (ragno dall’aspetto vistoso e dal morso doloroso ma innocuo), per secoli è stata ritenuta la responsabile di quel fenomeno pugliese, e salentino in particolare, noto con il nome di tarantismo.
Secondo le credenze popolari era il morso del ragno a provocare nelle persone colpite, i “tarantati”, un malessere generale interiore con sintomi psichiatrici, guaribile con la musica e la danza dell’ammalato per molti giorni consecutivi, sino allo sfinimento. Quell’antico fenomeno pugliese fu oggetto, nel 1959, di un importante lavoro di ricerca svolto nel Salento dall’etnografo italiano Ernesto De Martino (1908-1965) e incentrato su quei riti, danze e credenze e sulla cura per il morso del famoso ragno.
De venenis et morbis venenosis tractatus di Girolamo Mercuriale - 1588
De venenis et morbis venenosis tractatus di Girolamo Mercuriale – 1588
L’indagine etnografica di De Martino, pubblicata nel 1961 con il titolo “La terra del rimorso” (Il Saggiatore, 1961- pp. 273), provò che quei riti avevano per lo più la funzione di allontanare le inquietudini di una vita colpita dalla povertà e dall’emarginazione. Da allora però poco è stato aggiunto a quegli studi e a confermare il rallentamento subito dalla ricerca etnografica, è lo scrittore Federico Capone che nel suo libro intitolato “Viaggio nel Salento magico” (Capone editore, pp. 140- euro 10,00) così scrive:
“Nonostante i numerosi sforzi e la pervicace (buona) volontà, ben poco si è aggiunto, se non in casi assai rari, a La terra del rimorso; pur tuttavia, non si può negare che il movimento creatosi attorno al tarantismo abbia risvegliato, nel pubblico più ampio, un interesse che stava pian piano scemando verso quelle culture che sono delle classi popolari, provengono da queste e in queste trovano terreno fertile per attecchire, sopravvivere e rinnovarsi spontaneamente, senza forzature. In questo quadro di riscoperta, la ricerca ha subìto un rallentamento notevole, se non addirittura uno stop: ingenti somme di denaro sono state investite per confezionare piccoli e grandi eventi all inclusive, in grado di soddisfare la richiesta di esoticità del turista”.
La copertina del libro Viaggio nel Salento magico
La copertina del libro Viaggio nel Salento magico
“Viaggio nel Salento magico”, ulteriore perla della collana intitolata “La terra e le storie” diretta da Antonio Errico e Maurizio Nocera, curatore della prefazione, è un’antologia formata nella sua prima parte dalle diverse versioni di una leggenda narrata da Nicandro di Colofone (II sec. a. C.) e ambientata in Messapia, in un luogo chiamato dei “sassi sacri” dove si tenne una sfida, a passi di danza, tra le ninfe Epimelidi e alcuni giovani pastori messapi, inconsapevoli di essere in gara con delle divinità. La sfida, vinta dalle ninfe, si concluse con la trasformazione dei giovani pastori in ulivi dalla forma contorta “…ed oggi, si ode, di notte, una mesta voce proveniente dalla selva, quasi a lamentarsi” racconta Nicandro. L’antica leggenda fu ripresa da Ovidio (I sec. a.C.) e tradotta in ottava rima nel 1561 da Giovanni Andrea dell’Anguillara.
Seguono poi gli scritti di alcuni autori che hanno riportato testimonianza del tarantismo nel corso dei secoli. Tra questi Goffredo di Malaterra che nel 1064 descrisse così le tarantole che infestavano un monte vicino a Palermo e che infastidivano i soldati provenienti dalla Puglia al seguito dei Normanni: “…la tarantola è un verme che ha l’aspetto di un ragno, ma ha un aculeo velenoso e di puntura spiacevole”. Alberto di Aquisgrana, canonico della chiesa di Aquisgrana, descrisse invece le tarantole come “serpenti chiamati Tarenta”. Il canonico fu il primo a usare questo termine nella città fenicia di Sidone (nell’odierno Libano) e a descrivere i sintomi che i pellegrini cristiani colpiti dal ragno manifestavano “…morirono per l’agitazione e per una sete insopportabile, poiché le loro membra erano tumide per inauditi rigonfiamenti”.
Una tarantolata
Una tarantolata
Alberto di Aquisgrana descrisse anche i rimedi che gli abitanti di Sidone insegnarono ai Cristiani per guarire dal morso del ragno “…toccata e circoscritta la ferita di quel pungiglione con la mano destra, sembrava che quel veleno non potesse più nuocere” e il sistema per allontanarlo battendo delle pietre sugli scudi. “Chiaro il riferimento a quello che si è verificato nei secoli successivi, dell’importanza cioè del tamburello come strumento basilare della iatromusica” scrive Maurizio Nocera.
Girolamo Mercuriale, medico e filosofo, descrisse invece così i sintomi del tarantismo “…quando morde uno, quello è solito rimanere sempre nello stato e nel modo di fare in cui è stato punto finché il veleno non è stato espulso dal corpo”. E sul rimedio più noto, quello della musica, Mercuriale riporta ciò che aveva sentito dire da coloro che si erano recati in Puglia “…Tuttavia, per il resto affermano che contro il morso della tarantola può fare molto la musica, ma i rimedi per questo veleno sono da ricercarsi dagli abitanti della Puglia”.
Una delle raffigurazioni della Puglia nell'opera Iconologia di Cesare Ripa del 1593
Una delle raffigurazioni della Puglia nell’opera Iconologia di Cesare Ripa del 1593
A corredo dei preziosi testi che formano la prima parte del libro (e di cui l’autore ha riportato i testi latini originali), le belle ed antiche raffigurazioni simboliche della Puglia di Cesare Ripa, tratte dalla sua opera Iconologia del 1593. L’Apulia di Ripa è una “Donna di carnagione adusta che, vestita d’un velo sottile, abbia, sopra d’esso, alcune tarantole, simili a’ ragni grossi rigati di diversi colori, starà detta figura in atto di ballare, avrà in capo una bella ghirlanda di olivo, con il suo frutto e, con la mano destra, terrà con bella grazia un mazzo di spighe di grano e un ramo di mandorlo con foglie e frutto, avrà da una parte una cicogna, con un serpe in bocca, e dall’altra diversi strumenti musicali e, in particolare, un tamburello e un piffero”.
La seconda parte del libro di Federico Capone si apre con le testimonianze estratte dai diari di alcuni viaggiatori stranieri che dai primi del Settecento alla fine dell’Ottocento giunsero nella nostra regione. Leggendo questa selezione si scoprono notizie interessanti come quella riferita da George Berkeley nel 1717 secondo il quale il male si contrae “…mangiando frutta morsa dalla tarantola” o da Antoine Laurent Castellan che nel 1819 scriveva che la malattia “…rende un gran torto, soprattutto alle ragazze, per la loro sistemazione; inoltre il rimedio della musica è molto costoso, poiché si paga almeno un ducato al giorno ai suonatori, senza contare il medico, e poiché il malato balla da quattro a sette giorni di seguito”.
Il mito del tarantismo
Il mito del tarantismo
E ancora quella di Richard Keppel Craven che nel 1821 scriveva “gli abitanti di Brindisi appaiono molto più legati all’antica credenza rispetto a quelli di Taranto… I brindisini ritengono che il morso non manifesta i suoi effetti immediatamente, ma che questi si rivelano nei malati in forma di stupore, di languore, di debolezze e di malinconia, rendendoli inabili a svolgere le loro abituali occupazioni”. Girolamo Marciano da Leverano chiude questa selezione sul tarantismo con importanti riferimenti bibliografici. La terza parte del libro racchiude invece cinque leggende di alcuni paesi della Grecìa Salentina raccolte dal dialettologo Giuseppe Morosi. Le leggende in questione riguardano Martano, Castrignano e Sternatia. Il libro termina con alcuni racconti tratti dagli scritti di Trifone Nutricati Briganti, Giuseppe Gigli e Sigismondo Castromediano sulle fate, i folletti, gli orchi, le streghe, le sirene, gli spiriti della casa, i fatti di vita quotidiana e le superstizioni.