mercoledì 21 settembre 2016

"Tarantismo, un fenomeno minuscolo e complesso", introduzione ad "Osservazioni sul tarantismo ed altri scritti sulla musica 'popolare' salentina"


Tarantismo, un fenomeno minuscolo e complesso


 “Potrà forse sembrare strano che un discorso così impegnato, e che quasi promette di voler mettere mano a cielo e terra, possa prendere le mosse da una minutissima vicenda regionale, anzi locale, della cui levità par testimoniare il sorriso col quale a chi dà segni di agitazione immotivata chiediamo celiando: ‘Ti ha morso la tarantola?’. Ma non tutte le cose che abbiamo reso lievi meritavano di diventarlo, ed in ogni caso il ‘lieve’ ed il ‘grave’ non appartengono alle cose in sé, ma sono sempre di nuovo ridistribuibili nella trama della realtà in funzione di certi ‘problemi presenti’ che stimolano a scegliere il passato importante” (Ernesto de Martino, dalla Prefazione a La terra del rimorso).


Per quanto minuscolo, il tarantismo si svolge con dinamiche simili a quelle di qualsiasi altra vicenda umana e proprio come fatto dell’uomo lo abbiamo voluto descrivere, sicuri che questo taglio sia l’unico in grado di ri-sentimentalizzare un fenomeno che appartiene al Salento ed alle sue genti, nonostante da sempre abbia subìto l’aggressione da parte di forze non propriamente interne (per sostrato culturale, per provenienza geografica e altro ancora) che lo hanno trasformato, plasmato a seconda delle esigenze, anche personali e/o del momento, analizzato fino all’osso e snaturato, privandolo talvolta di quell’anima popolare che lo ha mantenuto in vita fino ai giorni nostri.
Ma oltre che minuscolo, il tarantismo è anche complesso: tutto sommato giovane, le origini risalgono al basso Medioevo, affonda le radici nel mondo antico; esclusivo della Puglia e di Terra d’Otranto, ha paralleli extraeuropei e, ancora, collocato nel quadro dell’incontro fra Islam e cattolicesimo diviene successivamente materia da argomentare con parametri della magia naturale e, più in là, medici non meno che simbolico-tradizionali, da leggere in chiave positivista o (neo)umanista o, ancora, con approccio antropologico e sociologico... tutto ciò a conferma che ha uno svolgimento articolato, come ogni cultura d’altronde, ed è per alcuni aspetti “vittima” del pensiero dominante, per altri forma di resistenza a quello egemone.
Banalizzando, si potrebbe immaginare questa storia come il tratto d’un fiume del quale non scorgiamo né l’inizio né la fine ma, al massimo, parte degli infiniti rivoli che da questo si diramano; sta a noi seguirne uno, non potendo né col nostro sguardo, né con la nostra conoscenza, percorrerli tutti. La scelta scaturisce dalla sensibilità personale e dal guardarsi attorno per capire se – e dove, e come – questa manifestazione possa attualmente meglio collocarsi, dando per scontato che ancor oggi sopravvive: una risposta l’abbiamo rintracciata nell’aspetto musicale ed in particolare nel reggae+hip hop – precursori Georges Lapassade e Piero Fumarola – e in quei giovani che danzano per liberarsi sotto il palco del concertone finale della Notte della Taranta.
Fra il tarantismo di ieri e quello di oggi, e poco prima del reggae+hip hop, c’è un’altra esperienza “musicale” sulla quale ci siamo soffermati, ossia la canzone dialettale urbana, perché anticipatrice di alcuni aspetti dell’evento di Melpignano, fra i quali quello più preponderante è l’assoluta spensieratezza con la quale la gente, nel folk-leccese come nella world-pizzica, si approccia e vive l’esperienza sotto i palchi. Si aggiunga che la canzone dialettale urbana, ieri nelle piccole sagre, oggi rispolverata anche a Melpignano, contribuisce a liberare i presenti, seppur per poche ore, da ogni problema piccolo o grande che sia; non poteva essere altrimenti in una Terra d’Otranto dove qualsiasi momento catartico può essere ricondotto al tarantismo, come confermano i fatti: ogni “minuscolo evento” è risultato, finale ma non definitivo, del contesto nel quale si svolge – non si è forse partiti con le tarantole sul monte Pellegrino a Palermo, per arrivare alla cappella di San Paolo a Galatina e poi al reggae+hip hop nostrano? – Perché allora non cercare un luogo, un modo, nel quale il rito oggi si rinnova? Solo in quest’ottica si può comprendere quanto già scritto da Ernesto de Martino, cioè che il fenomeno, ieri come oggi, è plasmato dalle stesse forze egemoni che lo studiano e lo (de)scrivono, introducendo – e al tempo stesso portando all’esterno, pensiamo alle fonti giunte in nostro possesso – di volta in volta “determinazioni nuove” e “compromettendone efficacie antiche”. Ma aggiungiamo una nostra altra constatazione: mentre il tarantismo viene modellato e descritto dall’esterno, contemporaneamente, si rafforza grazie ai protagonisti che lo vivono e lo mantengono in vita, adeguandolo a tempi e luoghi.
Questa continua e rapida ricontestualizzazione spiazza un po’ tutti, non ultimi gli studiosi che, di conseguenza, non riescono a “stare sul pezzo”; ciò contribuisce a non ricercare e a non produrre, dando l’impressione che il tarantismo sia definitivamente esaurito. Ecco il maggiore dei problemi di fronte ai quali ci siamo oggi trovati: se già in precedenza lo studioso identificava il tarantismo come relitto, e questo avveniva quando la “tradizione” era più “stabile”, ci dovremmo sentire giustificati a considerarlo oggi definitivamente scomparso, sol perché non ne cogliamo le trasformazioni? Dovremmo forse, in maniera semplicistica e arrendevole, affermare tout court che “la tradizione è tradimento”, perseverando in una azione dissacratoria che oggi, a differenza di qualche ventennio addietro, non ha alcuna valenza ideologica ma serve piuttosto per colmare e celare ben altri tipi di lacune?, o dovremmo piuttosto continuare l’opera di de-sentimentalizzazione che vuole far “vivere” il tarantismo solo nelle fonti? Nulla di tutto ciò, e col lavoro che segue offriamo alcuni strumenti per navigare nuovi tratti di storia, nuove vie, fornendo una serie di testimonianze già note nella prima parte, e letture nuove nella seconda, per dimostrare che il tarantismo non si è esaurito.
Per dirla in una parola, l’oggetto della ricerca, in storia non più che altrove, non si esaurisce, si cerca... anche con l’osservazione.



Marzo 2016                                                                         fc