lunedì 22 dicembre 2014

Tommaso Campanella, "De sensu rerum et magia", Libro V - Capitolo X, 1620


Tommaso Campanella, "De sensu rerum et magia", Libro V - Capitolo X, 1620.
«[...] Nell’agro della città di Taranto nascono animaletti della grandezza di una nocciola, per figura di viso e numero di piedi simili quanto più possibile ai ragni, di colore vario e sfumante per lo più verso il rossiccio, il verde, il violaceo. Quando è il tempo della raccolta, avendo questo animale punto gli uomini, questi cadono a terra stupefatti e non si trovano giovamento se non nel suono della musica e, rallegrati, saltellano tanto a lungo finché non cacciano, sudando, il veleno. Una volta guariti, tuttavia, se vedono altri saltellare, saltellano. Ogni anno nello stesso periodo tornano alle medesime sofferenze, finché il ragno che li ha morsi rimane in vita, se si prestia fede agli abitanti, che spesso io interrogai quando, con i marchesi Del Tufo, dimoravo in Puglia. Quanto dettoci non è vano, poiché anche colui il quale si rifece il naso amputato con la carne del braccio di un servo, ebbe viva la particella del naso fin quando il servo era in vita; dopo la morte, marcendo il corpo del servo, anche la particella si vedeva marcire [...].
Pertanto la musica non agisce direttamente sul veleno, ma sullo spirito tenue, mobile e aereo, che espelle il veleno attraverso i sudori provocati dall’agitarsi del corpo [...]».

giovedì 25 settembre 2014

Quando la tarantola “conquestava la Sichilia”


Quando la tarantola
“conquestava la Sichilia”

Allo stato attuale degli studi, quella di Goffredo Malaterra (XI sec.) risulta essere la prima testimonianza dell’uso del termine Taranta intesa come verme capace, col suo pizzico, di avvelenare chi vien punto (“La tarantola è un verme che ha l’aspetto di un ragno, ma ha un aculeo velenoso e di puntura spiacevole”). Il monaco benedettino, oltre ad esporre gli effetti molesti del morso ne suggerisce un rimedio, che egli chiama clibanica, consistente nell’“infornare” il malcapitato perché questi sudasse, espellendo così il veleno. A supporto di tale interpretazione, riportiamo due documenti che illustrano in maniera immediata e vivace, questo singolare trattamento.
Il primo, risalente al 1358, è tratto da un manoscritto di fra’ Simone da Lentini La Conquesta di Sichilia, ed è un rimaneggiamento in siciliano dell’opera del Malaterra. 

La conquesta di Sicilia. Capitulo XV. Comu lu Duca Rubertho vinni in ayuto di lo Conti, per prindiri Palermu, et poi appiro grandi vittoria di li Palermitani.
Essendu lu Duca Ruberto in Pugla, et audendo chi so frati in Sicilia avia grandi affanni et periculi […] vinni in Calabria, per veniri in Sicilia ad ayutari a so frati. […] Anno milli LXIV. Passaru lu Faru, lu Duca et lo Conti solamenti cu CCCCC homini di cavallo; et vinendu in Sicilia, discurrendu per tutti li terri, non trovaro nullo ascontro di inimichi: et camminandu per Palermu, si misiro in uno munti, ch’appi nomu Munti Tarantino, per li multi tarantuli chi si generano; eta a quillo tempu era tanta la moltitudini di li tarantuli, chi lo campo, et li Normandi ni foro grandimenti offisi; et la natura di quisti tarantuli è chi a qualunque persona ch’è muccicata si genera tanta ventositati ch’è una cosa stupenda ad intendiri la ventositati, chi nexi di lo corpo muccicato; et non cessa quista ventositati fin chi lu muccicatu non s’ha misu intro uno furno caudu; et multi ni morino: vero chi uno chalouru in principiu secundu tiriria tali veneno fora. […].

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Per avere ulteriore conferma che clibanica debba essere inteso come “cura del forno”, riportiamo quest’altra “scoppiettante”, è il caso di dirlo, descrizione di Nicolò Palmieri, tratta dalla Somma della Storia di Sicilia di Niccolò Palmieri (Editore Giuseppe Meli, Palermo 1856).

“Narra il Malaterra, che il duca Roberto e ’l conte Ruggiero col loro esercito vennero ad accamparsi sopra un monte nei dintorni di Palermo, il quale ebbe in appresso il nome di Tarantino, per la quantità de’ ragnatelli, che vi erano, nel latino barbaro chiamate tarantae, onde venne il nome siciliano tarantuli. I morsi di tali insetti producevano una strana malattia. Gl’intestini s’empivano d’aria; per lo che tutti, ch’erano su quel monte, divennero petardi, e se non s’esponevano sulle prime al calore del forno, ne morivano. Nessuno dei monti, che circondano Palermo, ha mai avuto il nome di Tarantino; i morsi de’ ragnatelli, come ché ve ne fossero dei velenosi, non hanno mai prodotto quello strano male. Forse alcuno de’ cavalieri normanni avrà detto ciò per celia a Malaterra, e ’l buon monaco se la bevve. Ma nel proemio della storia ei si protesta che gli errori di essa: non tam mihi, quam relatoribus, culpando adscribantur; praesertim cum de ipsis temporibus, quibus fiebant, praesentialiter non interfuissem, sed a transmontanis partibus venientem, noviter Apulum factum, vel certe Siculum ad plenum cognoscatis”.

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Ultimissima nota: Per il Du Cange se “Clibanicus” è pane cotto in argilla, “Clibanus” è uno strumento di ferro, di argilla o di qualsiasi altro materiale sotto il quale è possibile cucinare di tutto, non solo il pane. I Galli la chiamano “campana”, poiché somiglia a quella figura. Differisce tuttavia dal forno sia perché è mobile, sia perché è più piccolo e perché è fatto di altri materiali

(1) “I nostri molestati dalle tarantole”, tratta dal De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius, Lib. II, Cap. XXXVI, nell’edizione Pontieri del 1928 e da noi rielaborata in Viaggio nel Salento magico, Lecce 2013.
(2) Quella che qui proponiamo è la trascrizione a stampa curata da Vincenzo di Giovanni, Cronache siciliane, Gaetano Romagnoli 1865.
(3) Riduzione in italiano: La conquista della Sicilia, Capitolo XV, Come il duca Roberto andò in aiuto del conte, per prendere Palermo. Il duca Roberto, mentre era in Puglia, venne a sapere che suo fratello, in Sicilia, si trovava in gravi difficoltà e, così, si mosse per l’isola, passando per la Calabria, per portargli aiuto. […] Anno 1064. Il Duca e il Conte, passarono il Faro con soli 500 cavalieri e, una volta arrivati in Sicilia, non incrociarono nemico alcuno. Procedendo verso Palermo posarono le tende su un monte chiamato Tarantino, a causa della gran quantità di tarantole che lo infestava; In quella stagione era tanta la moltitudine di ragni che in tanti, fra i Normanni, ne furono offesi. La natura particolare di queste tarantole sta nel fatto che generano talmente tanta aria in chi è morso che la pancia si gonfia, provocando ventositati (flatulenza, ndr) straordinaria che non finisce fino a quando il malcapitato non è messo nel forno caldo – in nota Vincenzo di Giovanni scrive che “Il Malaterra così dice del rimedio di questo chalouru o calura come oggi si sente, e calore nel volgare comune. Onde il chalouru è il ferventior aestuatio (il caldo più feroce, ndr), o il clibanica dello storico normanno” –, molti perirono a causa dell’aria nella pancia. Il principio è che il calore, facendo sudare, espelle il veleno.
(4) Charles Du Fresne Du Cange, Glossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis, 1733.
(5) Panis in testa coctus.
(6) (Cibanus est) Instrumentum ex ferro aut opere figlino, aut alia materia confectum, sub quo non solum panis, sed aliud quidvis coqui potest. Campanam Galli vocant, quod ad eam figuram proxime accedat. Differt autem a furno, tum quia mobile sit, tum quia minus, aliaque insuper materia constet.

martedì 19 agosto 2014

TARANTA I RIMEDI CONTRO IL VELENO / / / Articolo apparso su Nuovo Quotidiano di Puglia del 12/08/2014


Cure alternative

Se il ballo è considerato terapia principe per il tarantismo, ciò non esclude ve ne siano altre.
Goffredo di Malaterra scrive di clibanica, ossia dell’uso di un forno (clibanus, appunto) nel quale “infornare” il tarantato (d’uso anche in Sardegna per guarire dal veleno dell’argia e anche, in generale, per risanare i folli).
Alberto d’Aquisgrana che fra il 1125 e il 1158 scrisse l’Historia Hierosolymitanae expeditionis, una cronaca della prima crociata, che, nella piana di Sidone, in tanti, fra i Cristiani, morirono a causa del veleno delle serpi, chiamate tarenta, e che “furono edotti dagli indigeni su come guarire […]. Toccata e circoscritta la ferita di quel pungiglione con la mano destra, sembrava che quel veleno non potesse più nuocere. Similmente impararono un altro rimedio, che l’uomo punto dovesse giacersi, senza indugio, con una donna e la donna punta con l’uomo”. Prosegue poi  sostenendo che per tenere lontani i serpenti si dovevano battere le pietre con colpi frequenti o procurare altro rumore percuotendole sugli scudi così che i serpenti venissero spaventati da questo strepito e i compagni potessero così riposare tranquilli […].
Altro metodo per scamparla consiste in una sorta di “cristalloterapia”: ne scrivono Giorgio Baglivi e George Berkeley, con particolare riferimento ai serpenti. Il primo cita la “pietra indica” che “si trova nel capo del serpente indico, volgarmente Cobra de Cabelo, “che si crede “avere una virtù specificata per estrarre il veleno dalla parte cui fu innestato dall’animale velenoso”. Nel caso specifico il medico apre la ferita e vi pone  le pietre serpentine in modo tale che queste possano assorbire il veleno, una volta assorbitolo si mettono in un bicchiere di latte perché possano poi essere riutilizzate.
Di “pietre serpentine”ci dà notizia anche Berkeley, in particolare egli parla lingua di un rettile pietrificato trovato sull’isola di Malta.
Gianfranco Pivati nel suo Nuovo dizionario scientifico e curioso sacro-profano (1747) scrive che che “[...] dopo l’arrivo di san Paolo a Malta non vi furono più né vipere né alcun altro animale velenoso, e che quegli stessi che vengono portati d’altra parte, non vi possano vivere, particolarmente nel sito dove san Paolo fu morsicato, che è una caverna, dalla quale tutto il giorno vengono portate via pietre per scacciare gli animali velenosi, e per servire da protezione e da rimedio contro le punture degli scorpioni e dei serpenti: né si può dire, che questa sia una proprietà naturale del Paese, perché quando vi capitò san Paolo, gli abitanti avendolo veduto morsicato da una vipera giudicarono che cadesse morto. La cosa dunque deve derivare dalla particolare benedizione di san Paolo estesa su tutta l’isola; e un viaggiatore ci assicura, che vi si veggono dei bambini maneggiare scorpioni senza pericolo [...]”.
Stesso potere di guarire dal morso degli animali velenosi, come le pietre e la terra di Malta, lo aveva l’acqua del pozzo della cappella di san Paolo a Galatina e, non di rado, le serpare, portavano assieme ai vermi ed alle tarantole delle boccette contenenti il miracoloso.


lunedì 11 agosto 2014

TARANTA, IL VELENO DEI MILLE MISTERI / / / Articolo apparso su Nuovo Quotidiano di Puglia del 08/08/2014 (unplugged)


Sintomi del tarantismo

I sintomi del tarantismo sono tanti e generici, e simili a quelli indotti dal veleno dello scorpione, molto spesso il primo caso di contatto col ragno si ha all’inizio dell’estate e poi, ciclicamente, il male ritorna, si guarisce definitivamente solo con la morte della tarantola che ha iniettato il veleno.
Goffredo di Malaterra scrive di rigonfiamento del corpo, così come pure Alberto d’Aquisgrana.
Francesco Berni (1497-1535) nel suo Orlando Innamorato (11.7), descrive in rima segnali e cura: “Come in Puglia si fa contro al veleno / Di quelle bestie, che mordon coloro, / Che fanno poi pazzie da spiritati; / E chiamansi in vulgar tarantolati; / E bisogna trovar un che sonando / Un pezzo, trovi un suon che al morso piaccia; / Sul qual ballando, e nel ballar sudando / Colui, da sé la fiera peste caccia”.
Altre avvisaglie sono malinconia, spossatezza, apatia talvolta accompagnata da febbre violenta...
Ma come fare a capire, di fronte ad una sintomatologia così generica e varia, se c’è stato o meno il morso del ragno? I più pronti direbbero che basterebbe analizzare la ferita, ma questa non sempre è manifesta -ben prima di de Martino, evidentemente, si attribuiva al morso un valore più simbolico che reale-. A questo punto non si può che basarsi sull’esperienza degli specialisti, ossia i musici.
Il barbiere di Nardò Luigi Stifani (1914-2000), medico per antonomasia delle tarantate, basava la sua diagnosi sull’osservazione del paziente. In particolare cercava di capire già dallo sguardo se vi fosse la presenza di veleno, poi se la persona si trovasse in uno stato di eccitazione non comune e, infine dall’“elettricizzazione” (ossia da un movimento continuo) delle dita dei piedi.
Se il mezzo principale per guarire è il ballo, non è rara la presenza, nel rito terapeutico, dell’acqua; questa viene utilizzata in vari modi (una secchiata, l’immersione) ma anche, semplicemente, fatta bere, così come descrive Giuseppe de Dominicis/Capitano Black (1869-1905) nella poesia La tarantata: “Eh, l’arma mia!, la tocca a Galatina, / ca lu Santu cussine è cca ole priatu!... / Quantu rria dhai, stasira o crammatina, se binchia, / se binchia d’acqua e bi’ ca n’ha passatu.” (rid. eh, l’anima mia, deve andare a Galatina, poiché il Santo vuole esser pregato così, giusto il tempo che arrivi lì, stasera o domattina, si riempie d’acqua e vedi che poi tutto passa).
Questo richiamo costante all’acqua ci fornisce lo spunto per una riflessione. Il morso del ragno conduceva il paziente ad uno stato di talassofobia, ossia di rifiuto o di paura dell’acqua. Per associazione di idee, crediamo che il pellegrinaggio alla cappella di san Paolo, debba essere interpretato in quest’ottica, soprattutto alla luce del fatto che si pensava che l’acqua contenuta nel pozzo sito alle spalle della cappella, e murato negli anni Cinquanta per motivi igienico–sanitari, aveva il potere di guarire, provocando il vomito (a questo bisogna aggiungere che le serpare salentine, spesso vendevano delle bottigliette contenenti l’“acqua de santu Paulu” al pari della “Terra di Malta”.
Nota conclusiva Una sintesi dei sintomi e dei danni, talvolta permanenti, prodotti dal veleno tarantolino è data da Achille Vergari, nel suo Tarantismo (1839): “Se le sofferenze prodotte dal veleno delle tarantole non passano del tutto, restano dissesti cronici […] fra gli altri è una particolare malinconia e talvolta stupidezza, la quale dura sino a che il veleno tarantolino o le modificazioni indotte non vengono tolte […]. I fenomeni ipocondriaci dei tarantolati sono: desiderio dei luoghi solitari e dei sepolcri, di stendersi sui feretri a guisa dei morti, e di gettarsi nei pozzi. Le donne sogliono perdere la verecondia facendo delle cose oscene. Altri amano rotolarsi nel fango; altri trovano diletto nell’essere battuti, altri nella corsa a salti, da cui la definizione di morbus saltatorius. I colori spiegano diverse azioni sui tarantolati, piacevoli e sgradevoli, sino a farli divenire furiosi”, per quanto riguarda la ciclicità del fenomeno e la particolare sensibilità ai suoni, Vergari continua scrivendo che “I tarantolati, dopo essere guariti dall’acuzie morbosa, sogliono restare per qualche tempo malsani e, soprattutto, in una specie di vacuità. […]. Tutti i tarantolati, nel tempo della stagione calda, nonostante fuori dalle sofferenze, nell’accordo degli strumenti musicali sentono grate ed eccitanti emozioni.
I tarantolati dopo il parossismo non ricordano ciò che hanno fatto, non più appetiscono quel che desideravano, e paiono destati da profondo sonno o delirio”.



Rettili, scorpioni e ragni

Probabilmente per loro valenza ctonia, i rettili, gli scorpioni ed i ragni sono da sempre stati considerati appartenenti alla stessa specie, generati dal grembo della grande madre terra, così come narra Nicandro di Colofone, autore greco del II secolo a. C. nelle Teriache: “I rettili e i falangi dannosi, così come le vipere e gli innumerevoli esseri che sono gravame della terra, derivino dal sangue dei Titani”, feriti nella battaglia contro Zeus.
Alberto d’Aix (XII sec.), riferisce che durante la prima crociata, trovatosi l’esercito cristiano nei pressi di Sidone, venisse attaccato da una schiera di serpenti, chiamati Tarenta e che in molti, fra i feriti, “perissero a causa dell’agitazione e per una sete insopportabile” a causa del veleno di questi animali.
Ma se erano tarantole (tarenta), perché chiamarli serpenti e non invece ragni? Probabilmente perché  serpente, dev’essere interpretato alla maniera latina di serpo, serpis, ossia strisciare da cui serpens, –entis inteso genericamente come “strisciante”.
In tempi più recenti e in Italia, Francesco Cancellieri in una celebre Lettera sul tarantismo e sull’aria di Roma (1767), avvisa il destinatario, Dott. Koreff, di stare attento a non confondere la tarantola lucertola con la tarantola ragno, ma c’è anche l’esempio, di molto antecedente, di Niccolò Perrotti di Sassoferrato (1430-1480).
A questo bisogna aggiungere che, come fa notare in un interessante articolo Massimo Pittau, “in varie zone della Penisola e anche in Corsica col nome di tarantola si intende il geco o stellione [...] ma anche lo scorpione”.
Si arriva così nella Terra d’Otranto, dove l’accomunanza (o fusione), è testimoniata nel dialetto leccese da scarpiune che identifica il ragno mentre, lo scorpione vero e proprio, come specifica Antonio Garrisi nel Dizionario Leccese-Italiano, si chiama scarpiune cu lla cuta (scorpione con la coda).
Particolarmente interessanti, ai fini di dimostrare l’equivalenza fra rettili e ragni, nel tarantismo e più in generale nella cultura popolare, ci paiono due testimonianze raccolte da Luigi Chiriatti in Morso d’amore ossia quella del medico delle tarantate Luigi Stifani il quale afferma che gli è capitato “di suonare anche per 15 giorni di fila, a un certo Aurelio di Galatone, pizzicato da una biscia” e poi, ancora, quella di Maria di Uggiano La Chiesa, la classica “comare di paese” che racconta di un uomo che, mentre andava a raccogliere il tabacco, si trovò di fronte ad un “animale nero, come biscottato, tutto scaglie, ma grosse, come una specie di grosso serpente. Allora questo serpente ha alzato la testa per lanciarsi, e questo povero cristiano prese un ramo per colpirlo. Il serpente lo fiatò su tutte le parti scoperte. Dopo che se ne ritornò a casa, mani e viso erano gonfiati”.
Maria parla, all’inizio, di un indefinito animale nero, tutto scaglie. La descrizione pare quella di una scolopendra (che può essere rossa o scura), nota nel Salento come tagghiafuerfeci (tagliaforbici) ma anche, più genericamente, scarpiune (scorpione). Se così fosse il cerchio si chiuderebbe e ci troveremmo di fronte ad una ulteriore testimonianza di come tutti gli esseri serpenti, nel senso di striscianti, possano essere accomunati.
           


giovedì 7 agosto 2014

Puglia e Taranta, storia secolare / / / Articolo apparso su Nuovo Quotidiano di Puglia di lunedì 4 agosto 2014

La tarantola di Puglia (unplugged)

Ernesto de Martino (1908-1965) rimane talmente colpito dalla descrizione degli incresciosi effetti causati dal morso della taranta fornita da Leonardo da Vinci (1452-1519) da ritenerla degna di aprire La terra del rimorso (1961). A detta dello scienziato toscano, quel ragno, inoculando il suo veleno nell’uomo, mantiene lo sventurato “nel suo proponimento, cioè quello che pensava quando fu morso”. Questa era una credenza molto rinomata fra il XV e il XVI secolo, e trova un’illustre precedente annotazione nell’Opus de venenis (composto fra il novembre del 1424 ed il maggio del 1426, ma pubblicato per la prima volta in Venezia nel 1492) di Sante Ardoini. Il medico pisano, descrive gli “accidenti” causati dalla punzione, da quelli comuni, inappetenza, dolore di stomaco, vomito a quello più singolare, ripreso poi da Leonardo da Vinci, che vuole che fino a quando il veleno non è espulso dal corpo, il malcapitato rimanga nello stesso stato d’animo in cui si trovava al momento del fatto. Da segnalare anche ciò che è scritto in una delle opere maggiori di Niccolò Perrotti arcivescovo di Sassoferrato (1430-1480), Cornucopiae sive latinae linguae commentarii; qui l’autore si premura di specificare che ci sono due tipi di tarantole, una rettile, lo Stellione, e l’altra, più propriamente della Puglia, che è invece un ragno, e che, se si è pizzicati da quest’ultimo, si può anche morire. Sarà poi Girolamo Mercuriale (1530-1606) nel suo Libro sui veleni, a descrivere più approfonditamente le conseguenze del morso del falangio di Puglia, simili a quelle causate dal morso dello scorpione e ne ribadisce la “solita” peculiarità: “quando morde uno, quello rimane nello stato e nel modo di fare in cui è stato punto finché il veleno non è stato espulso dal corpo, così che se punge qualcuno che cammina, quello camminerà sempre, se sta saltando, sempre salta, se sta ridendo sempre ride”, aggiungendo che “i rimedi per questo veleno sono da ricercarsi presso gli abitanti della Puglia”.
Basterebbe questo per legare la tarantola e tarantismo alla Puglia, ma ci sono anche voci discordi, come quella del medico Francesco Serao (1702-1783) che, nelle sue Lezioni accademiche sulla tarantola (1742), ritiene improbabile finanche accostare il solo nome del ragno a Taranto, liquidando tale etimologia come incolore. Probabilmente, se volessimo pensar male, egli muove questa obiezione più per spirito di critica verso i suoi predecessori e, in particolare, verso il suo predecessore Giorgio Baglivi (1688-1707) il quale sostiene che “si chiama tarantola non perché questo animale sia più velenoso in Taranto che negli altri paesi della Puglia, ma solo perché al tempo dei Greci e dei Romani quella città era o più frequentata delle altre, o più nobile, e però trovandosi in maggior numero malati afflitti da questo veleno, questo animale trasse dunque il suo nome” (De Tarantula. Dissertatio VI. De Anatome, morsu et effectibus -1695-, nella traduzione di Raimondo Pellegrini).
Probabilmente era sfuggito, al Serao, che già Goffredo di Malaterra nel De rebus gestis Rogerii... (1100 circa) associa il nome di taranta alla Puglia. Infatti, l’esercito normanno, che nel 1064 si accampa sul monte Pellegrino e viene molestato da questi ragni, proveniva dalla Puglia.
Senza contare poi che, fra il XVI e il XVII secolo, l’aracnide diviene identificativo della regione, tanto che Cesare Ripa (1555-1645), immagina nella sua Iconologia (1593) “la Puglia come una Donna di carnagione adusta che, vestita d’un velo sottile, abbia, sopra d’esso, alcune tarantole, simili a ragni grossi […] starà detta figura in atto di ballare” a questo aggiunge che avrà, al suo fianco, “diversi strumenti musicali e, in particolare, un tamburello ed un piffero”. Poco più avanti egli giustifica la presenza delle tarantole di diversi colori sul vestito della donna poiché “animali noiosissimi e unici in questa Provincia”, attribuendo a seconda del colore del ragno “diversi e strani accidenti” nel malcapitato che dovesse incorrere nel loro morso e, la presenza degli strumenti perché il veleno di questi animali si mitiga e si vince con la musica dei suoni […]”.
Abbiamo visto quindi che, almeno dall’XI secolo, la tarantola è legata alla Puglia e a Taranto.

giovedì 29 maggio 2014

Serpenti di fuoco, dalla Bibbia alla tarantola


Serpenti di fuoco, dalla Bibbia alla tarantola
Il passo di Alberto di Aquisgrana dal titolo “Come molti perirono a causa dei serpenti nella città di Sidone” (lib. V, cap. XL - Historia Hierosolymitanae Expeditionis, scritta fra il 1125 e il 1158) risulta importante perché, allo stato attuale degli studi sul tarantismo, è il primo nel quale si utilizza in terra medio-orientale il termine Tarenta. Riassumiamo brevemente i fatti: durante la prima crociata (indetta nel 1095 da Papa Urbano II) l’esercito cristiano si accampa nei pressi di Sidone, nell'attuale Libano, e qui è assalito da alcune “Tarenta. In tanti, fra coloro i quali vengono morsi, periscono. Altri, edotti dagli indigeni su come medicare le ferite, riescono a salvarsi.
Il fatto strano è che quelle “Tarenta” non sono le tarantole-ragno a noi ben note bensì, come ci scrive il cronachista d’Aquisgrana, sarebbero “serpenti di fuoco”.
In realtà non è il primo a parlare di serpenti infuocati in Medio Oriente, c’è, infatti, un precedente illustre: la Bibbia (Libro dei Numeri, 21:4-9) specificatamente la Vulgata: “[…] Quamobrem misit Dominus in populum ignitos serpentes, ad quorum plagas et mortes plurimo rum […]” (anche se nellaVetus Latina sono generici serpenti: ora ergo ad Dominum ut auserat à nobis serpentem). Nella CEI74 (la Bibbia nella trasposizione della CEI ediz. ‘74) e nella Nuova Riveduta, “infuocato” è reso come “velenoso”. Nella CEI2008 compare invece il termine “bruciante”, simile a infuocato, ardente, ma interpretabile in maniera più immediata, anche rispetto alla traduzione della Nuova Diodati, della quale riportiamo il passo in questione, poiché considerata l’elaborazione più fedele alla Vulgata:

I serpenti ardenti” e il serpente di bronzo
Poi i figli d’Israele partirono dal monte Hor, dirigendosi verso il Mar Rosso, per fare il giro del paese di Edom; e il popolo si scoraggiò a motivo del viaggio. Il popolo quindi parlò contro Dio e contro Mosè, dicendo: «Perché ci avete fatti uscire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Poiché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo miserabile cibo». Allora l’Eterno mandò fra il popolo dei serpenti ardenti i quali mordevano la gente, e molti Israeliti morirono. Così il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro l’Eterno e contro di te; prega l’Eterno che allontani da noi questi serpenti». E Mosè pregò per il popolo. L’Eterno disse quindi a Mosè: «Fa’ un serpente ardente e mettilo sopra un’asta; e avverrà che chiunque sarà morso e lo guarderà, vivrà». Mosè fece allora un serpente di bronzo e lo mise sopra un’asta; e avveniva che, quando un serpente mordeva qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, viveva”.

L’interpretazione che offre una visione più immediata di questi “serpenti ardenti” è, si diceva, quella che ritroviamo nella CEI2008: brucianti, nel senso di “serpenti che infiammano col loro morso”, causando ferite dolorose o, anche, “serpenti dal morso bruciante”.
Se incrociamo i dati col racconto di Alberto d’Aquisgrana, in particolare quando si afferma che “alcuni (dei morsicati) morirono [...] per una sete insopportabile”, possiamo supporre che il veleno causasse nell’uomo idrofobia e che quindi la morte fosse indotta per un forte calore. Non è da escludere, poi, che con “infuocato” ci si riferisse al colore della pelle dei serpenti (intesi come esseri striscianti -gravame per la terra- quindi anche ragni, scorpioni, e altro).
Infine una osservazione, che mi riprometto di verificare più approfonditamente: secondo Goffredo di Malaterra (XI-XII sec.) l’esercito normanno che fu attaccato dalle tarantole nei pressi di Palermo, nel 1064, proveniva in parte dalla Puglia; non è dunque peregrina l'idea che i crociati che si trovarono ad affrontare il “problema tarantole” nei pressi di Sidone, avessero a che fare con la Terra d’Otranto, visto e considerato che la prima crociata mosse i suoi passi anche dalla Puglia, sotto la guida di Boemondo I d’Altvilla (o, manco a dirlo, Boemondo da Taranto).

domenica 18 maggio 2014

Achille Vergari, nota sul tarantismo


Nota sul tarantismo 
Una sintesi vivacissima dei sintomi e dei danni, talvolta permanenti, prodotti dal veleno tarantolino è data da Achille Vergari, nel suo Tarantismo (1839): “Se le sofferenze prodotte dal veleno delle tarantole non passano del tutto, restano dissesti cronici […] fra gli altri è una particolare malinconia e talvolta stupidezza, la quale dura sino a che il veleno tarantolino o le modificazioni indotte non vengono tolte […]. I fenomeni ipocondriaci dei tarantolati sono: desiderio dei luoghi solitari e dei sepolcri, di stendersi sui feretri a guisa dei morti, e di gettarsi nei pozzi. Le donne sogliono perdere la verecondia facendo delle cose oscene. Altri amano rotolarsi nel fango; altri trovano diletto nell'essere battuti, altri nella corsa a salti, da cui la definizione di morbus saltatorius. I colori spiegano diverse azioni sui tarantolati, piacevoli e sgradevoli, sino a farli divenire furiosi”, per quanto riguarda la ciclicità del fenomeno e la particolare sensibilità ai suoni, Achille Vergari continua scrivendo che “I tarantolati, dopo essere guariti dall'acuzie morbosa, sogliono restare per qualche tempo malsani e, soprattutto, in una specie di vacuità. […] Tutti i tarantolati, nel tempo della stagione calda, nonostante fuori dalle sofferenze, nell'accordo degli strumenti musicali sentono grate ed eccitanti emozioni.

I tarantolati dopo il parossismo non ricordano ciò che hanno fatto, non più appetiscono quel che desideravano, e paiono destati da profondo sonno o delirio”.

mercoledì 12 marzo 2014

CRISTIANESIMO E TARANTISMO


Cristianesimo e tarantismo
Chiesa di San Foca (Melendugno, Le).
Quadro raffigurante il martire di Sinope

Il tarantismo è strettamente legato al cristianesimo. E in questo senso l'unico protagonista non è Paolo, del quale abbiamo già avuto modo di scrivere(1) ma anche altri santi e, a quanto ne sappiamo, una madonna, quella del Buon Consiglio, o del Rimedio. Per ragioni non solo di galanteria, partiamo da questa Madonna che ha una chiesetta a Lei intitolata in Palermo e questo poiché fu essa a consigliare Ruggero di accendere un fuoco per liberarsi dalle tarantole che molestavano l'esercito normanno quando, nel 1064, piantò le tende sul monte Pellegrino, nei pressi della città siciliana. Seguìto il consiglio ed appiccato il fuoco... le tarantole si dileguano, a questo punto, per devozione, Ruggero, espugnando Palermo nel gennaio del 1072, fa erigere la chiesetta che ancora oggi è lì a testimonianza dell'accaduto.
L'attuale santo patrono d'Italia, San Francesco, a quanto riferisce Berkley (1717), rende immuni i Francescani, tranne i Cappuccini, dal morso della tarantola, né la temono, “perché l'insetto ha avuto la maledizione di S. Francesco. L'abito francescano indossato per 24 ore, guarisce il tarantato”.
A San Vito a Vallata (Avellino), durante la processione in onore del patrono san Vito (lo stesso del “ballo”, quello che guarisce la chorea, l'epilessia, e altro...) , si recita quest'inno: "Voi cacciatori che a caccia andate, / andate a caccia felici e contenti, / appresso con i cani praticate, / potete avere qualche toccamento / Non solo dai cani arrabbiati, / siamo soggetti a tutti gli elementi; / scorpioni e serpi avvelenate stanno nascosti, e voi non li vedete / Voi andate di fede a San Vito, /quello porta l’unguento per la ferita"...
E in Terra d'Otranto vi è san Paolo, ma non solo. Ernesto de Martino scrive, in La terra del rimorso (1961), che “sulla sconvolta e aspra costa adriatica della Penisola Salentina, vi è un paesino, S. Foca, nella cui chiesa si distribuiscono ancora ai visitatori ingiallite immagini di questo Santo bizantino, accompagnate dalla didascalia: S. Foca protegge in modo particolare i suoi devoti dai morsi degli insetti e rettili velenosi, come tarante, vipere etc”. Il legame diretto fra San Foca e il morso del ragno non si evince dalla sua agiografia, ma dalla tradizionale (con)fusione insetto-rettile. Il martire di Sinope, infatti, gettato in una fossa piena di serpenti velenosi, ne uscì indenne. A questo bisogna aggiungere che Egli è anche il protettore degli agricoltori.


(1) Ecco come descrive, Gianfranco Pivati nel suo Nuovo dizionario scientifico e curioso sacro-profano (1747) il fatto miracoloso avvenuto a Malta che vede protagonista l'apostolo delle genti: “[...] dopo l’arrivo di San Paolo a Malta non vi furono più né vipere né alcun altro animale velenoso, e che quegli stessi che vengono portati d’altra parte, non vi possano vivere, particolarmente nel sito dove San Paolo fu morsicato, che è una caverna, dalla quale tutto il giorno vengono portate via pietre per scacciare gli animali velenosi, e per servire da protezione e da rimedio contro le punture degli scorpioni e dei serpenti: né si può dire, che questa sia una proprietà naturale del Paese, perché quando vi capitò san Paolo, gli abitanti avendolo veduto morsicato da una vipera giudicarono che cadesse morto. La cosa dunque deve derivare dalla particolare benedizione di san Paolo estesa su tutta l’isola; e un viaggiatore ci assicura, che vi si veggono dei bambini maneggiare scorpioni senza pericolo (...)”.

venerdì 28 febbraio 2014

Martedì Grasso - Paulinu Cacafae

Si avvvicina Martedì Grasso e mi piace postare ciò che sto scrivendo su questo antico rito legato al culto del fuoco e della vegetazione, diffuso, oltre che in molti paesi del Salento, anche in buona parte dell'Europa.

 
Martedì grasso – lu Paulinu
L'ultimo giorno di Carnevale le strade dei paesi del Salento vengono percorse da un singolare corteo funebre che vede protagonista (suo malgrado passivo) lu Paulinu (Paolino), un fantoccio riempito di paglia e vestito a festa -come si conviene a chi è destinato a miglior vita-, che viene accompagnato nel suo ultimo viaggio da improvvisati familiari, amici di vita abbigliati a lutto stretto e improbabili chiangimuerti (prefiche che, nel caso specifico, sono uomini travestiti da donna).
La messa in scena, chiaramente canzonatoria, ribalta l'ortodosso rito cattolico e non manca di parti “recitate” in maniera estemporanea. Ecco allora che la mamma, affranta, così si dispera strappandosi i capelli: Beddhu miu, core de mamma toa / figghiu te ci sape quale sire, / tantu buenu sinti e lurdu / ca faci cchiu' scuru ca luce (bello mio, cuore di mamma tua, figlio di chissà quale padre, sei così buono e sporco, che produci più buio che luce), e la sorella ribatte: Paulinu, pòru frate miu / beddhu, beddhu, facci de mpisu! / Oimmena, ce brutta sorte ca ha uta, frate miu... / Paraisu a tie e sanetate a nui... (Paolino, povero fratello mio, faccia da impiccato / Ahimé, che brutta sorte t'è toccata fratello mio... / che Dio t'abbia in gloria e dia gioia a noi...).
Per le nobili gesta compiute da lu Paulinu, la presenza degli amici e conoscenti è amplissima, e non si esime dal ricordarlo per il suo esemplare modo di vivere: Hai ragione, caru amicu, la zzappa te pesava e la mannara te straccava... lu lavoru nu' te ndurava... (Hai ragione caro amico, la zappa ti risultava pesante, e la mannaia ti stancava, il lavoro ti puzzava...).
Il corteo, sovente, è accompagnato da un banda musicale che esegue le più varie musiche.
Arrivata in piazza, la processione si ferma e gli astanti si pongono in cerchio attorno alla bara, così al fantoccio viene dato fuoco e, con lo scoppiettìo dei tricchi tracchi, il Carnevale va via.

Si veda Antonio Garrisi, Suntu fatti nesci