martedì 26 luglio 2011

Recensione a "Pietru Lau, Farfarina e Piripiernu" appasra su Paese Nuovo del 23/07/2011 a firma di Fernando De Dominicis

Recensione a "Pietru Lau, Farfarina e Piripiernu" appasra su Paese Nuovo del 23/07/2011 a firma di Fernando De Dominicis.



"Col Capitano Black"


Fa sempre piacere ricevere  un nuovo libro. A maggior ragione se è ancora fresco di stampa e se il suo contenuto è legato all’opera di  un proprio parente.
Il  libro è quello curato da Federico Capone, “Pietru Lau, Farfarina e Piripiernu”, il parente prossimo è Giuseppe De Dominicis, alias Capitano Black, uno dei poeti in vernacolo leccese più illustri di fine Ottocento – primissimi anni del Novecento.
Il volume è diviso in due parti: la prima, comprende alcune poesie note e già inserite nell’ ‘opera omnia’ a cura di Francesco D’Elia del 1926 e nelle successive; la seconda, è invece composta da scritti meno noti. Per intenderci quelli pubblicati sui giornali locali dell’epoca e mai inseriti in opere antologiche. Alcuni di essi, si trovavano in casa di Mario Palumbo tra le carte di Michele, amico disinteressato del poeta, e di Vito Domenico, che erano stati promessi, molto gentilmente, a me e a mio fratello Tonio, scultore di vaglia prematuramente scomparso, in qualità di discendenti più prossimi del poeta e che, invece, andarono a finire nelle mani di Rino Buja che, comunque, ne curò una esauriente edizione critica nel lontano 1979 pubblicata in “Rassegna Salentina. Rivista bimestrale di varia cultura”, a. IV n. 6, col titolo ‘Per una edizione  completa e critica delle poesie di Giuseppe De Domincis (Capitan Black)’.
Certamente tanto il Buja, allora, quanto il Capone, ora, non hanno inteso scrivere la parola fine sulla produzione poetica De Dominicis (il poeta morì nel 1905, all’età di poco più di 35 anni). Sicuramente molto ed altro di poco noto, in versi e in prosa (poesie, articoli, ‘cunti’),  che ha lasciato scritto è sparso ancora in mezzo alle righe dei giornali locali dell’epoca o nei cassetti di qualche scrivania dei discendenti di amici; il risultato fu che di quelle poche carte e manoscritti che erano rimasti ancora nella casa natìa, si perse qualsiasi traccia.
Di inedito, nel vero senso della parola, ci dovrebbe essere tanto: intere commedie, monologhi ed altro  se non sono andati a finire al macero per riempire la copertina cartonata di qualche altro volume, o fanno parte ancora delle belle intenzioni di qualche pseudo amico contemporaneo o disinteressato, non sappiamo quanto, estimatore successivo. A questi ultimi saremmo infinitamente grati se ne facessero dono al Centro Studi omonimo, pure in foto o in fotocopia.
A conferma della poliedricità del poeta, riportiamo quanto, nell’ormai lontano 1892, scriveva Sigismondo Castromediano, patriota e amico del poeta, nella sua prefazione a “Scrasce e Gesurmini”: ‘Di qua bozze di caricature, di là pietre litografate, e teste e figure modellate in creta, e pezzi di legni forti con iniziate incisioni, articoli di giornali incominciati e ben presto dimenticati.’ Insomma, un uomo con molteplici interessi che gli diedero lusinghiere soddisfazioni nella sua pure breve vita.
Dicevamo del libro di cui stiamo respirando ancora l’acre odore della colla della brossura a filo refe, a cura di Federico Capone. È un libro che getta tanti sassolini nell’acqua stagnante dell’élite culturale salentina per gli spunti critici che di fatto offre.  A cominciare dal cognome Lau del protagonista dei “Canti de l’autra vita”, che, in modo a mio avviso un po’ forzato, Giovanni Paladini, docente di lingue e  letterature straniere, vuol fare derivare dal termine inglese, law – legge. Lau rinvia molto più semplicemente, secondo noi, al mondo classico: è piuttosto forma aferetica del nome proprio del mondo antico Agelao, Menelao passato a cognome, denotando forza e coraggio; oppure è un agionimico che rinvia a Santo Stanislao, vescovo di Cracovia, vissuto nell’XI secolo, sostenitore della dignità umana e protettore dei piccoli e dei poveri. E forse si attaglia meglio con l’indole non solo di Pietru Lau, ma anche con quella del poeta. Se non vogliamo, facendola da dotti, ricondurlo al termine lode: in lode di Dio, in dialetto ‘a lau de Ddiu’, a sottolineare l’apoteosi divina che leggiamo in ‘Tiempu Doppu’, quando dopo la detronizzazione di Dio in seguito alla rivolta dei dannati capeggiati da Pietru Lau, viene ristabilito l’ordine e Lau è il primo a riconoscere la necessità di un capo e a condannare qualsiasi forma di anarchia.
Abbiamo avuto la possibilità di leggere con piacere il brano ‘Lu ellanu e San Pietru’ apparso sul numero 47 del 1893 del periodico “Il Tempo politico, letterario, amministrativo” stampato lo stesso anno della pubblicazione della prima stesura de ‘Lu nfiernu’, diversa dalla definitiva che vedrà la luce nel 1900. Come pure l’altra, ‘La criazione de l’emmeni’ apparsa sullo stesso numero di giornale diversa da ‘La criazione de l’omu’ compreso nell’opera del D’Elia, che risulta, rispetto alla prima, più ampia e rimaneggiata.
Pienamente d’accordo ci trova la notazione del curatore relativa alla valenza di critica ­– denuncia sociale di tutta l’opera del Capitano Black, trascurata dal D’Elia e anche da Pier Paolo Pasolini che nel suo “Passione e ideologia” (Garzanti 1960), pur scrivendo del Capitano Black, non riesce a vedere, né in lui né in tutta la produzione pugliese dell’Ottocento, alcuna traccia di denuncia sociale.
La poesia del De Dominicis, invece, trabocca di ‘sociale’: dalle “Macchiette”, alle “Figurine elettorali”, ai “Canti de l’autra vita”; è tutta, per dirla stavolta all’inglese, una sorta di work in progress delle misere condizioni di vita del popolo che chiede, come Pietru Lau, solo di riscattare, per sé e i suoi figli, secoli di vita passati in mezzo alla miseria e ai soprusi.
Che dire, poi, del poemetto “Allu Duca de Caddhinu”, pubblicato dal De Dominicis quasi sicuramente nel 1895, in occasione della morte del Bianco duca, suo ottimo amico, e non compreso in alcuna edizione, a parte quella del Buja.
È diviso in quattro canti di quartine di endecasilli a rima alternata, intervallate da quartine di novenari sempre a rima alternata (II canto), da distici a rima baciata (III canto) e da terzine a rima alternata(IV canto), per un totale di 271 versi. Il Duca è paragonato ad una quercia, il re di Napoli ad un ‘Ellanu’ (contadino) che ‘alli piedi già scuasati/la catina ni mbrugghiau:/quandu l’ibbe poi nfergiati/allucheu li sciunchiuau [… ]E rumase poi cussine/pe tant’anni spenturatu, carecatu de catine/a nu cheu sempre ttaccatu’. Sembra di vederlo, il Duca, con le catene ai piedi nei bagni di Montesarchio e Montefusco, lo Spielberg dell’Irpinia,tanto incalzante è il ritmo dei novenari.
Così il curatore si sofferma su altri aspetti poco conosciuti del De Dominicis, quello di autore di stornelli, alcuni anche di contenuto volgare, buttati giù secondo la modalità classica e l’altro di autore di canzoni: ‘Ppoggiala’ con musiche di Ildebrando Leuzzi e ‘A Ccampagna’ con musiche di Vincenzo Pecoraro, ne sono un esempio.
Altro potremmo aggiungere, ma preferiamo fermarci qui per non togliere il piacere della lettura. Ci preme solo sottolineare il valore di questo volume sul Capitano Black di Federico Capone. È ricco di interrogativi e dubbi che sollecitano, nella critica ufficiale, una lettura più attenta di tutta l’opera dedominicisiana a partire dai suoi articoli che i giornali dell’epoca si disputavano e a finire al suo poema epico “Li Martiri d’Otrantu”, ancora non opportunamente scandagliato come i “Canti de l’autra vita”. Esso vibra di amor patrio e amor cristiano espressi in 50 lasse, composte da 200 quartine di endecasillabi a rima alternata per un totale di 800 versi, uno più toccante dell’altro. Da ‘Lecce nu bera nienti a nfacce Utràntu’ a ‘Putenza forte de la Santa Fete/ca nde terasti a ncelu tutti quanti!... Ferma, piccinnu miu, ferma lu pete/ca ddu catisci è ppurvere de Santi!’ E dove, come sottolinea Capone, non è da trascurare la resa fonetica del comandante dell’armata turca Ackmet Giedik Pascìa in ‘Agumattu’ che riesce a incutere nel lettore paura e derisione nello stesso tempo.
Fernando De Dominicis

 

lunedì 11 luglio 2011

La pizzica è morta (lettera apparsa su Nuovo Quotidiano di Puglia nel giugno del 2003)


Lettera apparsa su Nuovo Quotidiano di Puglia del 1 giugno 2003

La pizzica in disuso? forse è morta
ma nessuno ha il coraggio di dirlo

La pizzica in disuso? non è vero, la pizzica è morta! Prendo spunto dalla polemica sulla infelice frase di Maurizio Costanzo a proposito della entrata in disuso delle musiche popolari per esprimere alcune considerazioni sulla musica nel Salento che non è solo la pizzica e la tarantella; di musiche ne esistono almeno altre due: la musica folk di fine anni Settanta [ma che nasce agli inizi del Novecento] (quella di Bruno Petrachi, di Gino Ingrosso, di Ginone, di Eupremio Fersino e tanti altri ancora) e la musica che adotta stili musicali prettamente afroamericani (il reggae hip hop dell’inizio anni Novanta). Non solo, se qualcuno ha buona memoria, potrebbe ricordare gli esperimenti di Georges Lapassade e Piero Fumarola, i quali crearono un genere battezzato tarantamuffin (divenuto poi technopizzica) che, come si può chiaramente intendere tendeva a contaminare la pizzica con il raggamuffin, così come sono da menzionare i laboratori di blues in dialetto […].
Mentre fino a qualche anno addietro si poteva affermare che la pizzica e la tarantella erano musica della campagna, per le donne che andavano a raccogliere il tabacco e venivano suonate e cantate in un contesto sociale differente da quello contemporaneo, difficile da comprendere ma che si poteva analizzare, oggi come oggi la legge è questa: “non capire, contamina la musica e balla” (dpmc).
L’”evoluzione” della musica contadina i cui elementi erano trasmessi dalla campagna salentina ai paesi ha portato ad una perdita delle radici, checché se ne dica tentando, spero in buona fede, di difendere una musica non in disuso, come ha affermato Maurizio Costanzo, ma definitivamente morta. (Federico Capone)

La risposta:
Finalmente una voce fuori dal coro. Finalmente qualcuno che dice basta alla retorica della pizzica e della taranta, di una tradizione offesa da un abuso tutto commerciale, lontano dalla serietà degli studi e dalla consapevolezza dell’appartenenza.
Quel ballo fa parte della nostra storia e nessuno lo mette in discussione; è stato giustamente riscoperto e valorizzato dopo alcuni anni di spocchioso oblìo, ha riempito piazze e locali, è entrato nel business delle scuole di ballo, lo hanno imparato i nostri figli.È diventato persino motivo per creare cattedre universitarie.Insomma, abbiamo dato.Il debito -se debito avevamo- è stato onorato.Adesso andiamo avanti e, se vogliamo ripescare nelle tradizioni salentine, guardiamo anche in altre direzioni.
E, soprattutto, non ci impermalosiamo se qualcuno non apprezza il genere. Il quale, dopo l’ubriacatura degli ultimi tempi, ha bisogno di un volume più basso, in modo che consenta di fare udire la propria voce solo a chi ha ancora qualcosa di nuovo -e di interessante- da dire sull’argomento.(Rosanna Metrangolo)