domenica 20 marzo 2011

Federico Capone, "Sata terra. Una breve storia della canzone dialettale leccese da Tito Schipa ai tarantismi premeditati", sunto

Federico Capone, Sata terra. Una breve storia della canzone dialettale leccese da Tito Schipa ai tarantismi premeditati, ebook scaricabile ai seguenti link:


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Questo è un sunto, con [appunti], del libro
  • Il titolo, Sata terra –dal latino, terra fertile–, vuole richiamare ad una terra pulsante e pullulante sotto l’aspetto culturale; Una breve storia della canzone dialettale leccese da Tito Schipa ai tarantismi premeditati è stato scelto perché, come ogni lettura, anche questa è personale, quindi critica e criticabile.
  • I capitoletti che compongono lo scritto potrebbero contenere ripetizioni o, al contrario, lacune. Bisogna tener presente che non è una versione definitiva ma sono degli appunti, suscettibili di approfondimento e di correzioni anche da parte di altri.
  • Accanto alla descrizione del fatto, che ho cercato di raccontare in maniera oggettiva, ove possibile o necessario consultando e riprendendo pari pari documenti d’archivio, ho inserito un saggio che approfondisce un determinato periodo o un adattamento (questa sì una consapevole lettura remixata) utile a far comprendere come, a distanza di spazio e di tempo, anche nella storia della musica, pur cambiando personaggi e i generi, i trattamenti per i fatti poveri siano sempre gli stessi.

Una certa sistematicità e uniformità ho cercato di darla far seguendo cronologicamente gli avvenimenti; mi è parso opportuno dare più spazio alle musiche ed ai brani che hanno dato gli albori alla canzone dialettale leccese, quindi nel periodo compreso fra le due guerre e a quelle che ne hanno, seppure inconsapevolmente, decretato la rinascita, quindi la folk di fine anni Sessanta.

Tracciando una storia della canzone dialettale leccese, sarebbe bene limitarsi alla narrazione degli eventi, senza citare cioè i nomi dei protagonisti poiché si correrebbe il rischio di dimenticare qualcuno. Tuttavia, dati i limiti cronologici abbastanza ristretti nei quali si svolge [in] questa storia ho voluto tributare, per quanto possibile, gli onori a quei protagonisti, almeno i più noti, che, con le loro opere, hanno mantenuto in vita o scritto una tradizione popolare [tanto per diffusione quanto -spesso- per provenienza che] la quale, pur non essendo unica in Italia e nel mondo, merita [meriterebbe] una attenzione maggiore a livello locale, almeno dal punto di vista strettamente storico, di quanta fino ad ora ne abbia avuta.

È nel corso del Novecento che si sviluppa quella canzone dialettale nel contempo original, perché nuova, e originator, perché crea una tradizione, segno distintivo di una società che cambia e si adatta a nuovi ritmi.

Fino ad oggi è stato dato molto spazio al tarantismo ed alla sua musica (quindi al fenomeno, clinico o di costume, ed alla sua espressione sonora, raramente è accaduto viceversa); l’approccio a questi lavori non è quasi mai storico, dovendo analizzare un fenomeno non prettamente musicale e, comunque, limitato alle espressioni delle classi subalterne.

Prima di arrivare alla canzone leccese del Novecento mi è parso utile fornire qualche cenno su come, almeno fino alla fine dell'Ottocento, si sia trasmessa la musica di Terra d'Otranto e quali sono le testimonianze che possono essere utili al lavoro dello storico (fonti archeologiche, diari di viaggiatori e altro).

[Il saggio parte da] Far partire questo breve saggio da Tito Schipa, universalmente riconosciuto come uno dei più grandi e autorevoli tenori del secolo passato, [ed] è una scelta obbligata. Si comincia da lì perché fu proprio Schipa ad incidere per primo, nel 1921 (Pathé, New York), un brano in dialetto leccese: Quandu te llài la facce [,].
Questo brano, divenuto a giusta ragione un classico della canzone locale [ma che], come si scoprirà leggendo il libro, non solo non è salentino ma era diffuso un po' in tutta Italia, dal Veneto alla Sicilia: un caso emblematico di polimorfismo di traduzione (cioè la coesistenza, nello stesso brano o in brani simili, di differenti forme di trasmissione, nel caso specifico orale-scritto) che evidenzia quanto sia poco attendibile e artificiosa la distinzione in livelli (popolare, colto, semicolto, etc.) di un qualsivoglia testo.

Furono comunque gli anni Trenta a lasciare un segno indelebile, tramite le sagre della canzone leccese, e brani popolarissimi che verranno ripresi anche dal Sss (Lu Pascalinu Tou, Canta la funtana noscia e altri).

Nel 1938 viene invece pubblicato l'inno alla leccesità: Arcu te Pratu (Corallo-Corallo). Il brano, scritto da Menotti Corallo e musicato dal fratello Gino, era cantato dal “Trio leccese”. Sul finire degli anni Settanta fu Gino Ingrosso, col Gruppo Liscio del Salento (che annoverava nelle sue fila Annabella, Ciccio Perla e Luigi De Gaetano, in arte Ginone, recentemente scomparso) ad inciderlo come brano d’apertura dell’album “Le più belle canzoni leccesi”. Il merito del maestro Ingrosso fu anche quello di scriverne la musica, dato che lo spartito originale non era disponibile. Fu anche cavallo di battaglia di Bruno Petrachi, grandissimo interprete della canzone leccese.
Queste ultime più recenti versioni, tuttavia, riprendevano tre o al massimo quattro delle undici strofe che originariamente costituivano Arcu te Pratu e che, nel complesso, forniscono un fresco e gustoso quadretto di una Lecce che, nei primi decenni del Novecento, doveva essere più viva di quanto si potrebbe immaginare.
Ecco dunque la descrizione dei caffé all’aperto, stracolmi di persone che discutono degli argomenti più vari e che “Cu lingua a serpente / Te tagghianu tutta la gente / E pe’ ogn’unu ca passa, / Ca trase o ca esse / Nna fila te cuerni ni tesse”; si parla anche dei costumi delle ragazze che sono “Tutte ngraziate / gentili, sapute, ngarbate” e delle loro madri che, pur di trovare un buon partito per la figlia, sono disposte a sopportare i numerosi corteggiatori.
E ancora, avanti, si evidenzia quel cambiamento radicale, dal punto di vista non solo sociale ma anche urbanistico, che il Capoluogo subiva “Cu tantu rreuetu / Palazzi menati / Patruni e nquilini sfrattati / Te iti surgere a bbuelu / Ddu menu te criti / Casedhe te tufi e pariti” e poi della “mezza colonna” posta fuori Porta Rudiae.
Ma Corallo canta anche dell’arguzia dei leccesi e della loro capacità di riuscire a prendere col sorriso anche le situazioni più gravi, come del caso di quel pover’uomo che, trovandosi senza soldi e con la casa sotto sequestro, pensò bene di sostituire la mobilia con dei blocchi di pietra, facendo rimanere a bocca aperta l’esattore.

Il secondo conflitto mondiale prima e il difficile dopoguerra poi, fermano la crescita della canzone leccese. Negli anni Cinquanta, tuttavia, il Salento diviene meta privilegiata delle ricerche di Lomax, Carpitella e poi De Martino.
Proprio quest'ultimo segna una linea di non ritorno per la cultura popolare di Terra d’Otranto, ancor più rispetto a quanto fosse precedentemente avvenuto con Lomax e Carpitella nel 1954.
E questo accade non solo per la grande personalità e autorevolezza di de Martino, ma anche perché con i nuovi mezzi di comunicazione, si riuscì a presentare una cultura salentina sconosciuta al resto d’Italia, come se questa fosse ferma da secoli, da sempre altra, dunque, rispetto all’egemone.
A seguito del grande successo che ebbe la Terra del rimorso si volle “bloccare” quella cultura così romanticamente sofferente descritta nel saggio demartiniano, come a racchiuderla in una sorta di riserva, per continuare a far credere che potesse sempre e comunque rimanere altra, estranea a qualsiasi processo di cambiamento.
Gli studiosi, salentini e non, hanno focalizzato la propria attenzione su un falso concetto di tradizione e di salentinità creando, paradossalmente, una cultura egemone in grado di oscurare le altre.

È invece proprio negli anni Sessanta che la canzone dialettale riprende nuova linfa vitale, e questo grazie soprattutto a Gino Ingrosso, Cesare Monte e Bruno Petrachi.

La folk leccese rappresenta una delle massime espressioni della salentinità, pertanto il leccese, non dev’essere in teso in senso delimitativo di un’area geografica (la città Capoluogo).
Nella seconda metà degli anni Sessanta si ebbe il punto più alto per quanto riguarda l’emigrazione dal Salento verso l’estero o verso le città del nord Italia. È chiaro che anche questo processo svolse un ruolo importante, al pari come vedremo del flusso migratorio interno alla provincia, per il riconoscimento al Capoluogo di un ruolo che, fino ad allora, era stato sempre di secondo piano, in una Terra d’Otranto frantumata in tanti piccoli paesetti.
Lecce comincia in quegl’anni a svolgere una funzione aggregante, anche dal punto di vista culturale.
È facile comprendere come la musica folk, espressione di una cultura di provincia dovesse essere ritenuta da molti intellettuali e studiosi un fenomeno passeggero, da non tenere in considerazione, da dimenticare o, addirittura, di cui vergognarsi (non è già accaduto, dopotutto, con le tradizioni popolari contadine?).
In realtà questo genere, nato agli inizi del Novecento e poi caduto nel dimenticatoio, ha rappresentato per intere generazioni un punto di riferimento e rappresenterà per molti studiosi, l’ideale trait d’union fra la musica antica, la pizzica e la tarantella, e la musica contemporanea, il reggae e l’hip hop.
Subito dopo il secondo dopoguerra si ebbe un notevole esodo dalla campagna verso la città e, grazie alla radio che riprese regolarmente le proprie trasmissioni, proponendo anche la musica mericana, la musica salentina subì nuove influenze.
L’ancora alto tasso di analfabetismo incise notevolmente sul cantato in dialetto salentino, come incisero notevolmente i corsi serali, frequentati dagli poppeti (gente al di fuori delle mura, e quindi di paese) che divenivano cittadini. In particolar modo i corsi serali incisero sul parlato ’polito, mentre la radio determinò i ritmi che gli emigranti utilizzarono per cantare.
La folk leccese rappresenta quindi il diretto risultato di un processo di cambiamento, del modo di intendere e di fare musica, dovuto in primis all’esodo dalla campagna alla città, ma anche, dato che ha il suo culmine massimo sul finire degli anni Settanta, all’emigrazione di ritorno.
Il processo di inurbamento, che si può dire in gran parte completato sul finire degli anni Sessanta, proprio quando, contemporaneamente, come afferma Luigi Stifani “diminuisce, nel 1968, il fenomeno del tarantismo”. Affermazione supportata anche dalla testimonianza, del 1970, di Giovannino di Nociglia, costruttore di tamburelli: “nessuno usa più i tamburelli perché non ci sono più tarantate, tanto vale smettere il mestiere”. Quasi dello stesso avviso Uccio Aloisi.
Ma come mai il tarantismo e la tarantola scompaiono con il trasferimento della gente in città? La risposta non è semplice perché il fenomeno è dovuto a molteplici fattori: un maggiore tasso di alfabetizzazione in primis ma anche, forse soprattutto, alla sempre maggiore diffusione e penetrazione dei mezzi di comunicazione di massa che, per il linguaggio, i modelli e la cultura che “imponevano”, spingevano quanti ancora erano legati alla cultura contadina, a “vergognarsi” delle loro tradizioni e anche della loro musica.
Il tarantismo non era un male fisico dovuto al morso del ragno ma era, soprattutto, un mezzo di “protesta” sociale, uno strumento di comunicazione del proprio stato di malessere e di evasione dalla quotidiana vita rurale.
Il lavoro in campagna infatti, pesante e faticoso, veniva scandito da ritmi ancestrali, dal sorgere e dal calare del sole.
I rapporti relazionali e sociali erano completamente azzerati e “la donna non aveva alcuna possibilità di incontrarsi con altre persone –come afferma Luigi Chiriatti, etnomusicologo– per discutere dei propri bisogni e dei propri problemi. L’unico incontro a volte era rappresentato da un fugace saluto durante le funzioni religiose domenicali”.
Le condizioni della vita contadina, quindi, generavano una serie di bisogni ai quali era impossibile dare una adeguata risposta. È logico affermare perciò che il fenomeno del tarantismo scaturiva da uno stato di disadattamento rispetto all’ambiente e dalla non accettazione di quelle condizioni di vita.
In città il modus vivendi cambiava totalmente: gli spazi più ristretti della città, rispetto alle grandi distanze che dividevano le case contadine, favorivano la socializzazione e la vita di relazione; le donne erano più emancipate, avevano più tempo da utilizzare per la cura della propria persona, una maggiore educazione sessuale evitava gravidanze indesiderate.
Anche i ritmi lavorativi cittadini erano diversi, scanditi da tempi più umani che lasciavano libertà di unirsi alla famiglia ed agli amici oltre che gratificazioni economiche più adeguate. Si livellava così la società e si contribuiva a riempire l’enorme dislivello creatosi nelle campagne dove i pochi ricchi, li patruni, sottomettevano i molti, disagiati, contadini.
Se poi si tiene conto che il tarantismo salentino appare legato al culto dei santi, in particolare di san Paolo, san Rocco e san Foca, e quindi al fenomeno religioso, in città, dove c’è maggiore laicità, si ha, in generale, l’indebolimento di dette pratiche e quindi la scomparsa del tarantismo.
Mentre la pizzica restava la musica della campagna, la musica folk diveniva quella della città, una musica per lo più scherzosa e spensierata che, tuttavia, non tralasciava di affrontare aspetti più seri quali l’emigrazione nelle grandi città del nord, la mancanza di un lavoro sicuro o aspetti propri della canzone d’amore, come la lontananza dalla propria consorte ed anche le serenate.
Altro aspetto significativo del processo di urbanizzazione è da riscontrarsi negli stornelli: delle strofe improvvisate, per lo più in rima, che venivano spesso utilizzate per esaltare le proprie doti personali o sminuire quelle dell’avversario e per enfatizzare un determinato argomento.
Inoltre non sono rare, nelle storie raccontate da questi nuovi cantanti, riferimenti a leggende o fatti accaduti negli anni precedenti e rimasti impressi nel ricordo del popolo (fra questi è da ricordare L’arcu te pratu di Corallo-Corallo).
La diffusione della musica americana e della canzone italiana attraverso la radio, dopo la liberalizzazione delle frequenze, ebbe anch’essa il proprio ruolo nello sviluppo e nella contaminazione della precedente musica contadina che, mutuando in parte le melodie, ma soprattutto i ritmi di quella più colta, sviluppò un vero e proprio sound salentino.
Anche l’emigrazione, spostatasi da oltreoceano alle città del nord Europa e d’Italia, e lo sviluppo dei mezzi di trasporto, quali l’aereo, il treno e le automobili fecero il loro ingresso nelle tematiche di questa musica (Lecce–Milano di Gino Ingrosso).
Altri temi nuovi trattano aspetti sociali e di vita cittadina (Figghi te Lecce di Bruno Petrachi): storie di ogni giorno, di incontri nelle osterie, a bere il vino (lu mieru) con gli amici, di donne tradite, di uomini costretti a rubare e quindi carcerati e dimenticati da tutti.
Non solo, santu Ronzu, il santo protettore del Capoluogo, insieme a san Giusto e san Fortunato, e la sua statua, posta al centro dell’omonima piazza, luogo di incontro storico della borghesia leccese, fu cantato diverse volte, così come la squadra di calcio del Lecce, assieme al suo mitico presidente Franco Jurlano ed al suo braccio destro Mimmo Cataldo, artefici primari della storica promozione in serie A, nel 1985.
Totalmente assente, almeno nei testi, è invece il riferimento alla tarantola e al suo morso, segno evidente che il processo di evoluzione della pizzica in musica folk ne determinò anche la morte.
Invece si ha un recupero delle vecchie canzoni in dialetto leccese, come ad esempio Lecce Gentile (Preite-Pizzi), cantata dapprima da Tito Schipa (e in tempi più recenti, da Bruno Petrachi).
Nel 1991 viene pubblicato a Bologna Fuecu, del Sss.
A conclusione del saggio vi è una tabella esplicativa che traccia in linea generale le dinamiche di cambiamento della musica salentina.
Se la pizzica e la tarantella sono da sempre considerate espressione del territorio salentino, non si può non notare come, parallelamente al folk revival, sul finire degli anni Sessanta, quando il fenomeno del tarantismo può dirsi concluso, riprende vita la canzone d’autore in dialetto leccese.
Questo genere, che ha lasciato ampie tracce del proprio sviluppo grazie alle registrazioni, diverrà spunto principale per un gruppo di giovani studenti leccesi che, a Bologna, ebbero, all’inizio degli anni Novanta, il merito di creare l’hip hop-reggae in dialetto leccese: il Sud Sound System.
Da allora il Salento e la sua musica si aprono a culture che precedentemente erano solo state sfiorate per arrivare, al festival della Notte della Taranta.
Per comodità ho ritenuto individuare due fasi caratterizzate principalmente dalla diffusione della musica. Mi spiego meglio: mentre nella prima fase si ha una diffusione a livello locale, nella seconda fase la diffusione diventa nazionale (in ogni caso si veda la tabella “quattro generi/due fasi”).
Nel passaggio dalla prima alla seconda fase (che non si è svolta soltanto nel senso di acculturazione) la musica salentina ha perso molti dei suoi caratteri popolari per divenire (o meglio per cercare di farla divenire) opera d’arte, ad iniziativa di musicisti colti, la maggior parte dei quali proviene da tutt’altra area che non dal Salento e da esperienze di studio tutt’altro che popolari.
Molti tratti distintivi della musica antica del luogo si sono perduti, altri si sono trasformati: si ascolti il dialetto, che diviene polito prima e ipertecnologico poi con l’hip hop-reggae fino a divenire irriconoscibile (quando c’è) con la world music.
Tali trasformazioni hanno indotto alcuni puristi a negare a queste contaminazioni (o coniugazioni) la qualifica di musica salentina. Inutile soffermarsi su cosa si intenda per puro e cosa per contaminato.
Certo è che in ogni periodo e per ogni genere alcuni aspetti rimangono costanti, fra queste la più significativa è relativa all’improvvisazione, sempre presente seppure sotto nomi differenti (stornelli, freestyle) o differenti provenienze (rurale e afroamericana).
Non è un fatto da poco: l’improvvisazione porta alla creazione di brani ogni volta originali; non solo, la rielaborazione costante di canti tradizionali o di musiche provenienti da altri territori in chiave tradizionale, denota una spiccata sensibilità degli artisti verso il mondo circostante: quello che per noi è storia è stata cronaca nelle canzoni salentine.
Ma la musica popolare del profondo sud d’Italia può ritenersi tale soprattutto nella prima fase, e nell’hip hop reggae dei primi anni, poi si è globalizzata.
Forse proprio per questo motivo, il repertorio del tarantismo, prima, e la musica folk in generale, dopo, è stato ritenuto minore.
Oggi da fenomeni da ospedale psichiatrico si è passati ad una merce da vendere sì, ma addolcendola, per renderla appetibile ad un più largo pubblico da parte di chi non ha voluto o saputo affrancarsi dai condizionamenti di un retroterra culturale che, col popolare, con la strada, non ha nulla in comune. E questo senza voler sminuire il ruolo svolto da studiosi e musicisti culturalmente estranei a quel mondo.
Il fatto è che la musica di Terra d’Otranto è sempre stata oscillante fra culture contrapposte (campagna-città, nazione-mondo).
Poi vi è un paragone, tutt'altro che azzardato (ma bisogna leggerlo tutto per comprenderlo), fra musica salentina e jazz.
Infine una cronologia minima ed una bibliografia commentata.


[note aggiunte successivamente]

sabato 5 marzo 2011

Sata terra. Una breve storia della canzone dialettale leccese da Tito Schipa ai tarantismi premeditati

E' disponibile in maniera assolutamente gratuita "Sata terra. Una breve storia della canzone dialettale leccese da Tito Schipa ai tarantismi premeditati".
Il libro, solo in formato elettronico, è consultabile, scaricabile, leggibile e condivisibile al seguente link:

http://issuu.com/sataterra/docs/sataterra