mercoledì 29 febbraio 2012

Le raccomandazioni sono vietate?

Raccomandazioni vietate? una storia troppo (assurda e) banale... soprattutto se lo dice Oronzo Limone
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martedì 28 febbraio 2012

La notte della taranta, ossia la morte della taranta= mixtificazione



La morte della Taranta


Scritto nel 2002 e tratto da “Lecce che suona” (2004)
Come ogni anno, ormai, si sta per concludere la Notte della Taranta, l'evento dell'estate salentina. Ma, bisogna porsi un interrogativo: cosa lascia questa manifestazione al Salento? Niente, anzi toglie molto, soprattutto alla tradizione che tutti vogliono rivalutare, creando spettacoli ed esperimenti pubblicizzati ad hoc.
Mi spiego meglio: in tanti apprezzano la Notte della Taranta come una manifestazione sperimentale, di contaminazione fra la musica ed i dialetti salentini e civiltà apparentemente lontane, così come in effetti è; ma non bisogna pensare che sia l'unica manifestazione di fusione della musica indigena con altri ritmi, anzi, è l'ultima e, forse, quella destinata a "morire" nel giro di qualche anno.
La musica nel Salento non è solo la pizzica o la tarantella, di musiche ne esistono almeno altre due: la musica folk e quella che adotta stili musicali prettamente afroamericani (e non parlo solo del Reggae-Hip Hop, ma anche del Jazz che si muove al di fuori dei circuiti più conosciuti; si pensi all’attività che da diversi anni svolge l’associazione jazzistica Thelonious S. Monk di Maglie, proponendo concerti innovativi e promuovendo musicisti nazionali e locali di indiscusso valore). Queste musiche partono dalla tradizione salentina, più vera perché meno contaminata dal "villaggio globale", e arrivano a proporre una miscela fra Valzer, Jazz e Samba, la musica folklorica (quella di Bruno Petrachi, Gino Ingrosso, Ginone, Eupremio Fersino e tanti altri ancora), le vibrazioni giamaicane e beat afroamericani, il Reggae Hip Hop indigeno, i cui massimi rappresentanti sono Dj War, Militant P, Gopher D, Sud Sound System, senza tenere conto delle miriadi di crew che girano loro intorno.
Non solo, se qualcuno ha buona memoria, potrebbe ricordare gli esperimenti di Georges Lapassade e Piero Fumarola, i quali crearono un genere battezzato tarantamuffin (divenuto poi technopizzica) che, come si può chiaramente intendere, tendeva a contaminare la pizzica con il raggamuffin, così come sono da menzionare i laboratori di Blues in dialetto salentino tenuti da Gianfranco Salvatore presso l'università di Lecce. 
La Notte della Taranta, creando fenomeni irreversibili, segna la morte, musicale, della pizzica, cosa che, fra l’altro, è già avvenuta con il Blues, con il Jazz, con il Rap. Come queste musiche, infatti, quella salentina, ha subito, negli ultimi anni, dei cambiamenti radicali.
Per rendersene conto basta ascoltare le registrazioni degli anni Settanta ed Ottanta e quelle contemporanee.
Differenti metriche, differenti stili sonori ma, anche, differenti argomenti; e non poteva essere altrimenti, vista l’urbanizzazione e l’intellettualizzazione di una musica nata nelle campagne salentine.
Mentre fino a qualche anno addietro si poteva affermare che "la pizzica e la tarantella erano musiche della campagna, per le donne che andavano a raccogliere il tabacco e venivano suonate e cantate in un contesto sociale differente da quello contemporaneo, difficile da comprendere ma che si poteva analizzare, oggi come oggi la legge è questa: non capire, contamina la musica e balla (dpmc)".
Nel Salento i "musicisti colti" sono entrati prepotentemente nella scena della "pizzica" e, senza apprendere né comprendere la lezione dei cantori salentini, si sono spinti "oltre" e hanno creato nuovi stili. Ora la domanda è: la perdita di alcuni punti cardinali porterà la pizzica ad una lenta ma inesorabile morte?, e quali sono le cause di questi cambiamenti? Le cause sono varie ma, a mio avviso, due sono le linee direttrici che bisogna seguire nel condurre una seria ed approfondita ricerca: una riguarda le ragioni endemiche, la continua e naturale evoluzione della musica; l'altra è esterna, riguarda i progressi nel campo tecnologico e delle comunicazioni di massa: la possibilità di ascoltare in tempo reale un concerto trasmesso dall'altra parte del mondo, ad esempio, per riprendere il meglio e svilupparlo tramite strumenti elettronici a basso costo che consentono di masterizzare, tagliare, cucire, remixare nel volgere di pochi minuti. Questi cambiamenti hanno dunque portato ad una "evoluzione" di quella che era all'origine una musica contadina i cui elementi fondamentali erano trasmessi dalla campagna salentina ai paesi.
Oggi sentire in radio un artista di musica popolare che afferma che il suo è un prodotto, o meglio "il" prodotto originale, farebbe ridere...
Tuttavia, nel Salento, la musica locale viaggia simultaneamente in due sensi: quello underground e radicale e quello leggero e commerciale.
Ma queste evoluzioni in nuovi stili e generi non possono che portare ad una perdita di punti di riferimento, segnando la morte della tarantella e delle sue intenzioni originali: un processo che già si annuncia difficilmente reversibile. Un sentore di questa cupa premonizione si è avuto in ambiti istituzionali e non, dove si reagisce creando vere e proprie scuole per cercare di mantenere viva una musica che pian piano sta perdendo la coscienza delle proprie radici.
D'altra parte non si può fermare l'evoluzione ma, sicuramente, si può cercare di conservare la musica della tradizione o, quantomeno, si può cercare di non spacciare un ibrido per prodotto originale. [...]

Recensione a "Cesare Monte e i canti del Salento", a cura di Federico Capone, Kurumuny 2009, tratto da Blogfoolk http://www.blogfoolk.com/2010/05/cesare-monte-i-canti-del-salento-cura.html

Cesare Monte, I Canti del Salento a cura di Federico Capone, Kurumuny, 2009, pp.80, Euro 14,00


Da sempre attenta a tutto il vasto e peculiare panorama musicale salentino, la casa editrice di Martano (Le), Kurumuny, ha di recente dato alle stampe questa interessantissima monografia di studio su Cesare Monte, cantautore folk dedito alla riproposizione di un genere musicale popolare che trae le sue origini tanto dal canto tradizionale quanto da quello d’autore, il tutto riproposto con gli stilemi tipici del liscio. In particolare I Canti Del Salento, curato da Federico Capone, incentra la sua attenzione proprio sul recupero da parte del folk cittadino di quella tradizione contadina, contaminandola di sonorità meno rurali e più adatte al ballo e alla canzone d’amore. Il territorio di Nardò, dove ha operato musicalmente Cesare Monte, è stato conosciuto e studiato quasi esclusivamente per la presenza e la musica di Luigi Stifani, tuttavia attraverso le pagine di questo libro scopriamo come sia una terra ricchissima che funge da cerniera tra le campagne del Salento e la provincia di Taranto. Oltre alla parte monografica, ampio spazio è dato anche alla trascrizione dei vari testi (tradotti anche in inglese) e ad un interessante sezione fotografica con scatti d’epoca. Viene così tracciato un percorso interessantissimo, nel quale emerge quella scena musicale che ebbe molto successo tra la gente comune intorno agli anni ottanta, allorchè il movimento di riproposta cominciò a scemare e sulle sonorità popolari calò un velo di silenzio. Cesare Monte, fu una sorta di baluardo della tradizione ed in questo senso è molto bello il racconto della figlia Marilena Monte che ne traccia un profilo affettivo ma anche musicale di grande interesse. Allegato al libro c’è un disco di materiale d’archivio che raccoglie quattordici dei brani più famosi di Monte, da La Coppula a Mannaggia Lu Rimo, passando per Beddha Ci Dormi e il tradizionale La Gaddhina fino agli Stornelli alle Campagnole. I Canti del Salento è dunque un libro prezioso perché getta nuova luce su una particolare zona del Salento fin ora mai studiata abbastanza ma custode di una tradizione di cui bisogna recuperare la memoria.

Salvatore Esposito



Recensione a "Cesare Monte e i canti del Salento", a cura di Federico Capone, Kurumuny 2009, tratto da Blogfoolk http://www.blogfoolk.com/2010/05/cesare-monte-i-canti-del-salento-cura.html


venerdì 24 febbraio 2012

HIP HOP, REGGAE, DANCE, ELETTRONICA - Stile Salentino/1 di Federico Capone - Stampa Alternativa (2004) 105 pag. reviewed by Psychosis - su drexcode al link http://www.drexkode.net/PageContents/Saggi/Hip%20hop%20reggae%20dance%20elett.htm

http://www.drexkode.net/PageContents/Saggi/Hip%20hop%20reggae%20dance%20elett.htm
HIP HOP, REGGAE, DANCE, ELETTRONICA - Stile Salentino/1 di Federico Capone - Stampa Alternativa (2004) 105 pag.
reviewed by Psychosis

Federico Capone, autore già di altri due libri riguardanti la popular-music italiana, "Usi,cosumi, superstizioni. Antologia di autori italiani e stranieri dal '700 al '900" e "Lecce che suona.Appunti di musica salentina", espleta la sua passione per le culture popolari con questo testo riguardante la scena hip hop salentina e non solo e le sue contaminazioni con il dub e la jungle.Vi è allegato inoltre un cd di 16 brani.

La terra salentina è colma di cultura danzante e musicale fin dall'antichità, e aldilà di una musica d'autore più mainstream e dello stesso tarantismo, che ha assunto negli ultimi anni una fenomenologia quasi commerciale, serba dentro di sè un cuore genuino pulsante fatto di rielaborazione dei generi afro-americani, tramite il dialetto e le liriche tra lo spassoso e l'esistenziale, sprazzi elettronici e quel senso ritmico festaiolo che appartiene da sempre a questi luoghi.

Capone fa notare le differenze fra le varie scene italiane hip hop (o posse), e come quella salentina fosse a sè stante, sia per motivi socio-economici, sia meramente linguistici e gergali, con liriche a volte difficilmente comprensibili a persone "non iniziate", o in lingua albanese come nel caso di alcuni pezzi dei Mas Mas.

Interessante è la premessa riguardante le fasi storiche dell'hip hop italiano, individuandone tre: dal 1983 al 1990, dal 1990 al 1994 e poi fino al 2000. Importante nel contesto, tenere presente di uno strato hip hop più commerciale e superficiale e di uno underground.
Nella prima fase, sulla scia di quello che accadeva nei ghetti neri americani, in Italia arriva la breakdance, il writin' e anche un rap filtrato dalle majors, però quasi di intrattenimento.
E'a Bologna, soprattutto nel CS Isola Nel Kantiere, che inizieranno invece i primi esperimenti multietnici, frequentati da giovani di tutta Italia. Neffa, Gopher D e il maestro di origine caraibica Soul Boy passano per Bologna, fino all'avvento del Sud Sound System, e dell'abbandono del cantato in inglese per l'italiano, con liriche anche politicizzate. Nella seconda parte dei '90s, ci sarà un ulteriore ricerca nelle metriche e nello sviluppo del djin'. In questa fase, saranno la Pergola a Milano e il Link a Bologna a fungere come principali centri di aggregazione, fino allo storico "Flava of the year '98" al Link, con il primo campionato italiano Itf (International turntablist federation).

Con uno stile coinciso, ricco e schematico, Capone passa poi alla descrizione dell'hip hop salentino, tenendo poi in appendice una descrizione biografico/stilistica dei vari gruppi o djs lì operanti, con interviste a Gopher D e Dj War, riportando infine i testi dei brani non strumentali presenti nel cd.

Indagando le commistioni con il reggae, gli esordi tarantamuffin, le liriche, riferite anche alle condizioni sociali dei giovani salentini, costretti spesso ad emigrare in cerca di lavoro, Capone oltre a presentare tutta l'evoluzione della parabola hip hop, presenta varie tabelle di paragone con gli altri generi locali, dalla pizzica al folk, effettuando uno studio sistematico dei testi. Nel cd, c'è spazio per vari esponenti salentini, dall'hip hop-reggae fino alla drum'n'bass e un elettronica più sperimentale.
Un ottimo testo, scritto in maniera chiara ed esaustiva. 

La Tracklist del cd

1 Fore Motha '97 - Alleluja
2 Skema - Io e te
3 Mas Mas - Shqiptalia
4 Skema - Primo risveglio
5 Fore Motha '97 - F.M. '97..
6 Working Vibes - Camenati
7 Vento di Fronda - Gorgonzola
8 Electric Jassound Project - Back
9 Gopher - Huruma
10 Science Force - Chinese revenge
11 Dj War - Really dreaming
12 Principino - Check this sound
13 Dj War - Formula 3
14 Science Force - Zion
15 Insintesi - S'aria

16 Programmer Unit - Fox trot & riddim'n blues

mercoledì 8 febbraio 2012

Da Tito Schipa al reggae. Il “patois” che fa lo stile salentino - su Urka

DA TITO SCHIPA AL REGGAE. IL “PATOIS” CHE FA LO STILE SALENTINO

Sud Sound System e dialetto salentino di Federico Capone
Ultimamente è calata l’attenzione sul dialetto salentino. Anche i nuovi rapper locali cominciano a propendere per l’inglese. Così proviamo a ripuntare i fari sulla questione facendo due chiacchiere con Federico Capone (foto qui sotto), il musicologo nato dall’hip hop che si occupa di rintracciare le parentele tra tutti i generi musicali che compongono lo stile salentino.
Federico Capone e il dialetto salentino
Un tempo gli studenti salentini che andavano a Bologna tornavano con marcate inflessioni nordiche. Negli ultimi vent’anni il fenomeno è andato affievolendosi, anzi si torna “più salentini di prima”. Che hanno combinato i Sud Sound System?
Una piccola premessa: non ascolto i Sss da una vita, quindi quando parlo di loro, mi riferisco alla crew originale, quella di Fuecu, per intenderci.
Comunque torniamo alla domanda: a mio avviso, l’emigrante non tagliava completamente i ponti con le proprie radici anzi cercava, anche tramite la parlata e la cantata in dialetto, di sentirsi meno alieno in un mondo che non gli apparteneva. A questo, alla fine degli anni Ottanta, bisogna aggiungere la nascita del reggae salentino, in particolare quello del nucleo originario del Sss, capace di rendere visibile, in maniera decisamente innovativa, una cultura realmente popolare per provenienza e diffusione che prima, seppur c’era, non trovava, negli ambienti radical-chic e accademici, la giusta considerazione; per molti aspetti è ovvio che catalizzatore di questa cultura rinnovata dovesse essere il Sss, una posse che non nasceva dal nulla: i suoi componenti-fondatori, avevano avuto esperienze musicali precedenti, chi in altri gruppi, chi nelle radio, chi nei centri sociali. A distanza di vent’anni, mi fa sorridere il fatto che si scrivesse che per fare hip-hop o reggae bastassero un piatto un microfono e una cassa. A vedere le cose con gli occhi di oggi mi rendo conto che dietro quel “fenomeno delle posse” c’era una cultura ben più profonda di quanto si possa ancora oggi immaginare. Cultura e tradizione, insomma, sono state le armi vincenti per far prendere una nuova coscienza a tutti i salentini (se il discorso lo limitiamo alla Terra d’Otranto).
Il dialetto salentino è davvero una lingua così musicale o è solo per il prestigio che gli hanno dato reggae e taranta?
A mio avviso ogni linguaggio è musicale. Eppoi, la musicalità non sta nel mezzo, in chi o in che modo la si propone, quanto piuttosto in chi ne usufruisce. Mi spiego meglio: non è che ci sia una cosa musicale (o non musicale) in quanto tale, piuttosto è chi recepisce il suono che lo individua come musicale o, al contrario, rumoroso. Non so a te, ma i miei genitori, quando a casa ascoltavo jungle (a proposito, lo sapevi che il primo disco in Italia è stato di Dj War, con la produzione di Jodi Marcos?) dicevano “ma cosa ascolti?”. Eppure per me era musica allo stato puro.
Poi per quanto riguarda il dialetto nostrano non è che prima del reggae o della pizzica non ci fossero state altre esperienze: Tito Schipa, Cesare Monte, Bruno Petrachi, Ginone, Augusto Nuzzone, Gino Ingrosso… cantavano in dialetto e, generalmente, erano considerati molto “musicali”.
Esiste realmente un’affinità tra il patois giamaicano e il nostro dialetto?
Non ti saprei dire. Certo, è stata una gran cosa reinventare e tradurre i termini stranieri in dialetto leccese. Non è una cosa facile però, pensa un po’: “hard core” in salentino diviene “ardi core” e mantiene quasi lo stesso significato, “come again” diventa “camina ntorna”… oppure i termini si reinventano, mi viene in mente “cuscì” che ha lo stesso significato di “brother”.
A certo punto, nei primi anni Novanta, si parlava di continuità genetica tra la pizzica e il rap salentino, tant’è che qualcuno parlò di tarantamuffin. Cosa c’è di vero?
Io sono certo che l’uomo provenga dai primati, ciò non mi può portare a pensare che, di botto, dalla scimmia sia venuto fuori l’uomo contemporaneo. Alcuni atteggiamenti, alcuni gesti sono comuni, ma ci si può sviluppare attorno un discorso antropologico, sociologico. Se invece devo osservare il fatto da una prospettiva storica, mi accorgo che nel mezzo ci sono stati vari passaggi, tanti cambiamenti. Lo stesso è per la pizzica ed il reggae salentino. È ovvio, scontato direi, che ci sia una sorta di “continuità genetica”, tuttavia non credo nel “legame diretto”, come molti pseudoantropologi a corto di storia del Salento, ancora oggi si ostinano a sostenere.
Fra la pizzica e l’hip hop è passato un bel po’ di tempo e, quindi, un bel po’ di storia, quella storia che in pochi conoscevano e, per molti aspetti, ancora oggi ignorano.
Cosa accomuna Tito Schipa, Uccio Aloisi, Bruno Petrachi e i Sud Sound System?
Anche se in maniera differente, il forte e orgoglioso legame con le proprie radici.
Stile salentino su urkaHai scritto, fra le altre cose, Lecce che suona, curato una antologia sul poeta dialettale leccese Giuseppe De Dominicis aka Capitano Black e pubblicato un libro, di Antonio Contaldo, su Luigi Paoli aka Gigetto da Noha, come mai tanta attenzione a queste storie misconosciute?
Penso che la storia sia un mosaico composto da tanti tasselli, da tante storie “minori” alle quali è giusto dare l’attenzione che meritano. Il fatto che nel Salento si parli di musica “popolare” solo in funzione di megaeventi, crea dei processi irreversibili che rischiano di cancellare le “storie minori” e, di conseguenza, di indirizzare il pubblico verso una storia “creata a tavolino”, che non necessita di verifiche o approfondimenti; e questo fa comodo al potente di turno che cerca di imporre il proprio punto di vista, rafforzando nel contempo il proprio potere.
Mi lascia perplesso il fatto che ogni altra civiltà abbia una propria storia, fatta di poesia e musica (ma non solo), mentre il Salento è fatto passare come il territorio della sola pizzica… Leggi regionali, musei che tutelano la musica di tradizione orale… ben venga tutto ma mi dispiace che i soldi girino sempre attorno alle solite cose ed alle sole persone… niente di innovativo, sai quanta musica c’è che andrebbe tutelata oltre la pizzica? Tanta, e invece tutto ciò che non gira attorno alla commemorazione della morte della taranta viene escluso e oscurato in modo sistematica.
Ci spieghi sinteticamente la tua teoria dei “quattro generi, due fasi”?
Guarda, è semplicemente una mia personale divisione, peraltro molto abbozzata, di come sia cambiata, almeno nell’ultimo secolo, la canzone dialettale leccese. Per quanto estremamente sintetica, penso sia la prima in assoluto. Qualche info maggiore su www.sataterra.blogspot.com
Da qualche parte hai detto che tra i grandi “poeti” della musica salentina metteresti anche Militant P (fondatore dei Sud Sound System). Confermi? Esiste secondo te un giovane poeta o cantante che potrà lasciare il segno come i grandi prima citati?
Confermo che quella di Militant P è una poetica rivoluzionaria e positiva e penso che sia entrato a far parte della storia dell’arte del Salento. Attualmente il panorama è poco confortante, la poesia sembra un esercizio fine a se stesso, è priva di messaggi e, il fatto più grave, è che questi mancano non per scelta del poeta quanto piuttosto per sua incapacità: se uno vuole fare poesia per capirla da solo, ben venga, ma dev’essere una scelta consapevole. Oggi in tanti credono di essere grandi poeti solo perché pubblicano qualche raccolta.
A mio avviso la novità è da ricercare nelle riviste underground che, nella Terra d’Otranto, propongono cose ottime, fra le riviste mi piace segnalare Diversatilità.
Ho notato che le nuove e nuovissime leve del dance hall style salentino stanno imparando il jamaican english… Fanno paura, anche perché sono un po’ gansta. Pensi che si esaurirà l’uso del nostro dialetto nel reggae? O, al contrario, come dicono ai convegni: quali scenari futuri?
Beh, fossi in te non mi spaventerei più di tanto per il fatto che fanno i gangsta, sono atteggiamenti che fino ad una certa età sono giustificabili e, in certi contesti sociali (che non credo ci siano nel Salento), giustificati. Per quanto riguarda l’uso dell’inglese e/o del dialetto non ci vedo nulla di male, è giusto che ognuno si esprima come vuole, purché mandi messaggi comprensibili (e possibilmente, passami il termine, anche se non mi piace, positivi). All’inizio si usava solo il dialetto perché l’inglese (in particolare lo slang) era diretto ad una ristretta cerchia, oggi la situazione è cambiata. Ma non penso sia questo il problema. Il fatto è che i ragazzini, molto spesso, sono legati solo a ciò che vedono su un palco o in tv o su youtube. Sono attratti dallo show business, dai buffoni che saltano su e giù da un palco, dal successo (che pensano sia) facile. E qui si ritorna al punto di partenza: non è vero che per fare musica basti uno strumento, serve anche un retroterra culturale solido, occorre studiare le proprie radici, non importa se a scuola o “sul campo”; se chiedi ad un b-boy americano (ma anche salentino) chi erano i Last poets, con ogni probabilità ti risponderà che sono stati tra i fondatori del’hip-hop. Se chiedi a un salentino chi era Pietro Refolo o Giuseppe De Dominicis, piuttosto che Antonio Verri o Salvatore Toma o, ancora, per quanto riguarda le arti visive De Candia o Leandro, non saprà risponderti. I Sss, parlo dei fondatori, lo sanno bene, invece, chi sono gli artisti succitati, e questo perché hanno studiato e hanno vissuto la cultura locale (ma non solo).
Poi è venuto lo show sul palco, ma quella è un’altra storia.
Parafrasando Shabba no roots, no culture…. niente radici, niente cultura.
FV


scaricabile da http://www.urkaonline.it/specials/da-tito-schipa-a-uccio-aloisi-al-reggae-il-“patois”-che-fa-lo-stile-salentino/

giovedì 2 febbraio 2012

Opera per piano-forte, pubblicata sul numero 9 di "diversatilità poetiche

Opera per piano-forte, pubblicata sul numero 9 di "diversatilità poetiche"

Opera per piano-forte
[prefazione]
Il Salento è terra d'illustri scrittori (tromboni) e di emeriti politici (buoni anche come matematici, data l'abilità a calcolar tangenti).
Ci sono sommi poeti che sommati, tuttavia, non ne fanno mezzo degno di nota –musicale, s’intende–. La poesia di questi altissimi poeti è legata a retaggi preistorici talmente lontani dalla nostra epoca che i significati, che già allora erano esoterici, lo sono ancor di più ai nostri giorni. E sbagliamo quando li tacciamo d'intellettualismo, sono raffinatissimi poeti esoterici.
Ci sono tanti bravi scrittori e ottimi suonatori di tamburelli. La pizzica va di moda. Ed anche la storia patria.
Ci sono i professori universitari, insigni accademici, conosciuti (ma pensi un po', signorina) da Lecce fino a Santa Maria di Leuca, e anche oltre, fino al Mar Mediterraneo, in fondo al Mar Mediterraneo, sia chiaro, dove si gettano e affondano, data la pesantezza della loro cultura.
Ci sono tanti salotti –alcuni anche molto antichi–, frequentati da gente davvero dabbene, ed estremamente fine nel cervello, forse perché fino a ieri avevano le scarpe grosse. Ma le hanno dismesse.
Proprio in uno di questi mielosi e pastosissimi salotti mi ritrovo una sera e decido di comporre, estemporaneamente, un'opera per pianoforte, per deliziare i miei deliziosi ed autorevoli compagni di conversazione.
Mi dica un po', signorina, non le piace la musica? Ma questa non è musica, è pittura!
- Che dice signore? È roba dura?
- Ma suvvia, ascolti, non abbia paura e poi mi dica. Non le piace mica? Ah, va in giro in biga! La comprendo, visto come funzionano i treni oggi…
Inizio a descrivere un paesaggio, e lo faccio in musica.
Al termine della mia performance, scrosciano gli applausi: che bello!

Opera per pianoforte (da suonare in maniera forte e piana)

[menhir]
(da suonare con una sola nota, della durata di circa trenta secondi, sempre con la stessa intensità. La nota dev'essere fine, per rendere l'idea di una pietra, solitaria, infilata nel terreno. Il suonatore dev'essere magro).

[dolmen]
(da suonare con tre note, della durata di trenta secondi ciascuna. In particolare si suonerà una nota dura, una nota durissima, una nota dura. Meglio se il suonatore è grassottello, nel caso in cui dovesse suonarlo il suonatore di [menhir], mentre suona deve necessariamente gonfiare le guance, a mo' di trombettiere).

[menhir su dolmen]
(questo è facile, basta suonare nei modi e con le modalità previste prima [menhir] e poi, a distanza breve [dolmen].
n.b.: si potrebbe anche suonare [dolmen] su [menhir], ma non avrebbe senso e susciterebbe ilarità e commenti sprezzanti).

[specchia]
(la durata è brevissima. Con tutte e dieci le dita percuotere simultaneamente e per una volta sola quanti più tasti possibile del pianoforte. Raccomandazione al suonatore: in posizione iniziale le braccia devono muoversi dal pianoforte verso l'esterno e la testa deve alzarsi lentamente. Poi, con scatto portentoso le braccia si muovono verso l'alto, con la testa sempre verso l'alto. A questo punto si gettano giù, insieme, testa e braccia. Attenzione a non perdere la testa!).

[salento preistorico]
(si comincia con [specchia] e si continua con [menhir su dolmen], oppure fate come volete, a piacere, tanto non cambia nulla).

Importanti note per il suonatore: essendo questa un'opera esoterica, è vivamente sconsigliato eseguirla in pubblico, di giorno e, soprattutto, in luogo aperto.
Si può fare, sia chiaro, ma solo se anticipata da una formula rituale che non posso qui riportare.