venerdì 12 novembre 2010

Cronologia minima della canzone leccese


Cronologia minima della canzone leccese

1900-1940
Gli inizi del Novecento sono prolifici per la canzone dialettale d’autore e per il recupero di quella tradizionale.

1921 - Tito Schipa incide a New York (PathE') Quandu te llai la facce (col titolo Quannu te aài aa facce), un brano di origine popolare che riscuoterà un successo senza precedenti nel Salento ed in tutto il mondo.
1927 - Armando Gill canta al “Politeama Donato Greco” l’Urtima Serenata, con musica di Vincenzo Pecoraro e versi di Enrico Bozzi.
1933 - Paolo Grimaldi musica Lu Pascalinu tou (versi di Vincenzo Pizzi). Il brano, scritto ex novo, narra di uno sciupafemmine locale; diviene una regional hit nel giro di breve tempo. Negli anni Sessanta e Settanta Lu Pascalinu tou verrà ripreso dal Gruppo Liscio del Salento e da Bruno Petrachi.
1934 - L’OND di Gallipoli pubblica, in occasione della fiera della Va Fiera del Levante, un libretto dal titolo Canti folcloristici eseguiti nel loro costume tradizionale dai pescatori di Gallipoli inscritti nell’Opera Nazionale Dopolavoro; contiene undici brani completi dei testi di canzoni in dialetto gallipolino, con relative trascrizioni musicali, fra questi sono da menzionare [Lu rùsciu de lu mare è tantu forte], [Sott’acqua e sotta jentu navigàmu], [Quandu l’augeddu pìzzaca la fica] e, in particolare, [L’acqua ci te sciacqui a la matina], tutti brani che verranno, in anni a noi più recenti, reinseriti nel contesto della neopizzica.
1935 - Ia Sagra della canzone leccese. La canzone che ha maggior successo è la fuori concorso Lucerneddhe te Santu Ronzu (Pecoraro-Casarano), cantata da Franco Perulli. Il primo premio è tuttavia assegnato a Comu e’ ca t’ia dire (Pecoraro-Mantovano).
1936 - IIa Sagra della canzone leccese. Non una grande sagra: la giuria non assegna il primo premio, attribuendo direttamente il secondo a Quista e’ Lecce (Corona-Sacquegna)
1937 - IIIa Sagra della canzone leccese. Da ricordare per la canzone Rumule, con versi Maria Attisani Vernaglione e musica di Tito Schipa, cantata dalla soprano Elena Petrini.
1938 - Lorenzo Casarano pubblica Lecce Canta un volumetto contenente alcuni suoi versi scritti appositamente per essere musicati da Vincenzo Pecoraro.
Sempre nel 1938 viene pubblicato Sona Maestru di Menotti Corallo, contenente l'inno alla leccesità: Arcu te Pratu.

Anni Quaranta
Non sono riuscito a recuperare testimonianze particolarmente significative. Forse perché l'Italia si ferma per il secondo conflitto mondiale.

Anni Cinquanta e Sessanta
1954 - Dal 12 al 17 agosto Alan Lomax e Diego Carpitella conducono una ricerca nel Salento effettuando oltre 170 registrazioni e circa 100 scatti fotografici.
1959 - Ernesto de Martino scende nel Salento assieme al suo gruppo di ricerca.
1961 - Viene pubblicata la prima edizione de La terra del rimorso, il resoconto della spedizione demartiniana in Terra d’Otranto effettuata nel 1959.
1968 - Bosio e la Longhini scendono nel Salento.

Anni Settanta
Sono gli anni di rottura fra la musica urbana e quella rurale. La prima trova i suoi protagonisti nel Gruppo Liscio del Salento, in Cesare Monte, Bruno Petrachi, Eupremio Fersino e gli Ultimi, Augusto Nuzzone, Franco Miccoli, Salvatore Cagnazzo e altri. La seconda viene rivisitata in chiave politica da vari gruppi di ricerca e riproposta. Fra questi il più importante è il Canzoniere Grecanico Salentino.
1977 - Il Canzoniere Grecanico Salentino pubblica Canti di Terra d’Otranto e della Grecìa Salentina.
1979 - Primo Festival della canzone leccese “Lucerneddhe lucerneddhe”, vinto da Ginone (Luigi De Gaetano) con il brano Ièu però, di Gino Ingrosso.

Anni Ottanta
Sono gli anni in cui la musica urbana ha una netta prevalenza sulla musica rurale. Grazie anche alle radio ed alla prima televisione locale privata, Telelecce.

Anni Novanta
Sono gli anni in cui la musica urbana scompare quasi del tutto e si afferma il movimento della neopizzica.
1991 - Il Sud Sound System incide Fuecu singolo che dà il via alla stagione dell’hip hop reggae in Italia.
1998 - Nasce la “Notte della Taranta”.

mercoledì 3 novembre 2010

Salvatore Toma, il principale esponente dell’avanguardia poetica salentina



Il principale esponente
dell’avanguardia poetica salentina

Salvatore Toma:

due fiabe
Da “Ancóra un anno”
con prefazione di Maurizio Nocera e DonatoValli




Biografia (dalla quarta di copertina del libro): Salvatore Toma è nato a Maglie l'11-12 maggio 1951 e qui è morto nell'agosto del 1968 in seguito a una colluttazione d'amore. Ma non erano passate che poche ore dal suo disastroso decesso, che il cielo lo rispedì sulla terra per mancanza di prove. Ora vive su una enorme quercia, si nutre di beffe e raramente guarda a terra. Ma più che per le sue divine poesie, Salvatore Toma è famoso per la sua acrobatica precisione nel beccare il vasino, abilità maturata col fatto che non volendo scendere mai più dall'albero, i monellacci del luogo glielo spostavano, divertendosi a vedere come se la cavava. Ed è appunto per questo incalcolabile virtuosismo che nel 1993 ha vinto il premio Nobel. Si narra che in quell'occasione, unanimemente richiesto di esibirsi, i giudici scappassero in tutte le direzione come pazzi inferociti, ma furono da lui tutti puntualmente beccati anche a distanze mostruose. In questi ultimi tempi gli è presa la fissazione dei fumetti, ma guai a portarglieli via perché sbraita come una bestia! quei maledetti monellacci, ora che lo scherzo del vasino non funziona più, gli hanno messo in testa che i fumetti sono dei meravigliosi dolcetti che si fanno in provincia di Rovigo. Poveri poeti.
Scherzi a parte, Salvatore Toma è un tipo decente, presentabile, un po' volutamente folle, ma in definitiva un buono. È sposato con una cara moglie-madre, piovutagli dal cielo (senza colluttazione... perciò è sfortunato al gioco) e ha due strepitosi bambini che gli fanno da papà e gli stanno sempre appresso, perché se lo perdono d'occhio un istante, ma solo un istante, lo si ritrova subito su quella maledetta querciaccia... Capito ora?



FIABA ALLA SVELTA

Cominciava il processo
pur senza testimoni.
L'accusa era grave:
in un raptus improvviso
di lussuria e di potere
aveva toccato il sedere
alla figlia del droghiere.
— Non è colpa mia lo giuro
mi pareva un diamante! —
spiegò
e la figlia del droghiere
per questa cosa qui
s'innamorò.
Ma un così improvviso amore
la legge non lo intese
non lo pretese.
Fece il suo corso
e lo condannò.
La figlia del droghiere
si ammazzò.


31.10.79

***
***

FIABA LOGICA

C'era una volta una ragazza
che si chiamava Cenerentola
e andava raccontando
che oggigiorno per sposarsi
non occorreva denaro e corredo
e tanto meno innamorarsi:
bastava perdere una scarpa!
Maria la volle imitare
e di scarpe ne perse una
(lo fece apposta)
ne perse due tre quattro cento
mille paia
ma di maschi nemmeno l'ombra!
così pensò
di essere stata imbrogliata
presa in giro
e non uscì più di casa
perché in paese di lei si rideva.
Ma Cenerentola diceva la verità
... se solo fosse stata capita!
Cara Maria
se solo ti fossi adeguata ai tempi
e fatto meno domande cretine!
se invece di perdere le scarpe
avessi perso le mutande...


31.10.79

Biografia (da wikipedia): Salvatore Toma (Maglie, 11 maggio 195117 marzo 1987) è stato un poeta italiano, tra i maggiori lirici salentini e pugliesi. Ha fatto parte dei cosiddetti "poeti maledetti salentini", quali Antonio Verri e Claudia Ruggeri.

Detto anche Totò Franz, nacque a Maglie, in provincia di Lecce, in una famiglia di fiorai. Frequentò il liceo classico, ma non volle proseguire gli studi, anche se da solo continuò a studiare intensamente i poeti che amava. In vita pubblicò sei raccolte di poesie, dal 1970 al 1983: Poesie, Ad esempio una vacanza, Poesie scelte, Un anno in sospeso, Ancora un anno e Forse ci siamo. Alcuni hanno attribuito la sua morte, avvenuta alla prematura età di 35 anni, ad un suicidio, sebbene l'ipotesi più credibile sia che egli si sia lasciato morire per abuso di alcolici.
La sua fama è stata accresciuta a livello nazionale dalla pubblicazione della raccolta di poesie Canzoniere della Morte (Einaudi, 1999), a cura della filologa Maria Corti. Le tematiche più ricorrenti della sua poesia sono la morte, il suicidio e l'amore. Il volume Ancora un anno, edito da Capone nel 1981, contiene molti dei testi raccolti dalla Maria Corti.

Nel 2005 Elio Scarciglia ha realizzato un documentario filmato su Salvatore Toma, fatto di testimonianze e intitolato Il bosco delle parole.
ANEDDOTI: Un giorno decise di scrivere su un muro la frase di Quasimodo, "Ognuno sta solo sul cuor della terra..". Nessuno completò la frase nel giro di un mese. Al che decise di completarla egli stesso: "...trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera."

martedì 2 novembre 2010

Alcune cose direttamente da Lecce e dintorni... Strambotti, contrasti, serenate e mattinate, musica folk leccese


Strambotti, contrasti, serenate e mattinate


[Bruttu curnutu]

Bruttu curnutu, nu’ ddìcere corne
ca tìe utàte le puèrti a quattru ande
e nd’ài nnu paru comu ddòi colonne
ca puèi sunàre le campane all’arme
puèrti ddo corne a frunte tantu longhe
ca puèi sunare le campane all’àutu.
Puèrti nnu nasu nde faci lemmìccu,
trìtici tauluni te parmientu;
puèrti ‘nna ucca nci tràse Taràntu,
Arnesanu cu tuttu lu cumèntu.

Comu nnu zingaru

Gìoane, a ccasa mia ci t’à chiamatu?
sulu si ssutu e ssulu si’ benùtu;
salutasti e nu’ t’àggiu salutatu;
nu’ t’àggiu tìttu tràsi e ssi’ tràsutu;
abbànde” -t ’àggiu tìttu- e t’à ssettàtu
nu’ te ògghiu” -àggiu retàtu- e nu’ à sèntutu;
comu nnu zingaru t’à comportatu,
ci resta faccituestu a ddu à trasùtu.

[Quantu si’ brutta merula te màcchia]

Quantu si’ brutta mèrula te màcchia,
nu’ tte cummène nuddha gnettatura;
mmacàri ca te llài dintra all’acqua,
sempre nìura rrumani te natura.
Tìeni la vita a mmanèra te mattra,
la facce comu lu culu te fersura
ci pe’ ssorte nde pàssi te la chiazza,
lu tiàulu se nde fusce pe’ ppaura!

Passài te nna patula
(ovvero Lu rusciu te lu mare)

Te sìra nde passài te nna patula
e ‘ntisi le ranocchiule cantare;
quantu è forte lu rusciu te lu mare:
- “la fìgghia te lu rre se tae alla morte”.
Iddha se tàe alla morte e ièu alla vita:
- “la fìgghia te lu rre se sta mmarita”.
Iddha se sta mmarita e ièu me ‘nzuru:
- “la fìgghia te lu rre porta lu fiuru”.
Iddha porta lu fiuru e ièu la parma:
- “la fìgghia te lu rre se ‘ndàe alla Spagna”.
Iddha se ‘nd’àe alla Spagna e ièu a Tturchìa:
- “la fìgghia te lu rre e’ la zita mìa”.

[Egnu ccantare ca ‘nci su’ mandatu]

Egnu ccantare ca ‘nci su’ mmandatu
te unu ci te òle mutu bene
cu le scenucchie a ‘nterra m’à priàtu
cu bègnu cu te cantu le sòi pene.
Ci lu etissi comu se ‘nd’à turnatu,
culure alla sua facce nu’ ‘nde tène.
Ci iddhu ba’ more, se nd’àe tànnatu,
ma tìe ci riesti ‘nde chiàngi le pene.

(…)
Mo’ spezzate, chitarra, e nnu’ ssunare;
te ddu te inne tutta st’allegria?
ah, nu’ canusci pene te ‘mare
ci ànu struscendu quista vita mia!
tìe tacite, lingua, nu’ pparlare,
ci parli, parla te malincunìa;
mòi ci la beddha me òse lassàre
nde chiàngu le pene te la ìa!

[Te dàu la bonasera a pprima rriata]

Te dàu la bonasera a pprima rriàta,
o nsèrtu te lumìa, scemma te rosa!
tìe de fiuri si’ rrasta ddacquata,
si’ rrasta te carofalu e dde rosa;
si’ beddha fòre e si’ maggiore a casa,
ogne beddhezza a ssu dde tìe rreposa.
Te dàu te tòu servu ‘nna ‘mbasciata,
tice cu lu cumandi a quarche cosa
ca te cce bidde a ttìe, facci te fata,
nu’ faeddha, nu’ rrite e nu’ reposa.
Abbandunàu la gente te sòa casa
puru cu bbàggia a ttìe, la magna rosa!


[La prima matenata ci te fazzu]

La prima matenata ci te fazzu
te la fazzu alla porta te la ìa
àusa la capu te lu mmatarazzu
ca do’ palore dicere te ulìa.
Ca si’ cchìna te rosa ièu la sàcciu
fèna aqquannanti la ‘ndore ‘nde rrìa
decendu: “rosa rosa” nu’ me sàziu,
ca ièu te rose ‘nde tègnu nnu mazzu;
le tègnu siggillate ‘ntra stu core
ca Rosa tìe te chiami e Primu Amore.

E mm’ànu tìttu ca te chiami Rosa,
Rosa, Rusina te ògghiu chiamare.
L’acqua cu cci te llài ogne matìna
Te prèu, Rusina mia, nu’ lla menàre;
ca’ a du la mini tìe nasce nna spina,
nna rosa e nu rusieddhu pe’ ‘ndurare;
poi passa lu speziale e ‘nde la scima,
metecina ‘nde face pe’ ssànare.

Te mandu bondì, rosa gentile;
spècchiu te lu mìu core, comu stai?
mòi tìmme ci l’ài àutu a despiacire
Ca sta ddurmìi e ièu te ddescetài”

- “O amore miu, l’ìbbi a piacire,
stìa spugghiecata e poi me mugghiecài;
e cquandu ntisi lu cantu civile
lu core nn’àutra fiata te dunài!”.



Pizziche, tarantelle, canti contadini e funerari


[Auzzate san Giuanni e nu’ durmire]

Auzzate san Giuanni e nu’ durmire
ca’ sta bìsciu tre nuule inire
una te acqua, una te ièntu, una te triste e mmaletièmpu
àuzzate e porta stu mmaletièmpu
intra a na grotta scura
a ddu nu’ canta àddhu
a ddu nu’ llucisce luna
cu nu’ fazza male, a mie e a nuddha creatura.


Ddha sìra ièu passai

Ddha sìra ièu passài e iddha nu’ ‘nc’era
la curte chìna me parse vacante
me mìsi a dummandà tutta la gente
se l’ìanu ista ddha uècchi calante
una m’à dittu ca null’à bituta
l’àutra m’à dittu ca a li balli à sciuta
ièu scii a li balli e la truài ballandu
cu ‘na casetta russa e ‘na pulita
me misi ddoi tre fiate cu ‘nci ballu
cu ‘nci vasu ddha ucca sapurita
lu miu compagnu tìsse “nu’ la fare
ci baci donna ài in galera a vita”
ièu in galera a vita ulìa cu scire
le carni mei cusute cu la sita
e ièu in galera a vita ‘nci su’ statu
le carni mei cusute cu lu spagu
cusile donna ca le sai cusire
cusile arretu puntu te camisa.

[A du te pizzecau la tarantella]

A du te pizzecàu la tarantella
sutta a lu giru te la gunnella
a du te pizzecèàu ca nu’ se scerne
sutta alla fodera te la camisa
e ca te pizzecàu ‘ntr’allu pièttu
de tandu beddha mia ca scisti all’ortu
me mìsi ddòi tre fiàte cu te cercu
- “Beddha tàmme le rose ca porti a’mpiettu”
- “Se voi le rose vànne rrètu all’ortu
invece de una pigghiande ‘nu mazzu”
- “nu’ bòju no la rosa te retu all’ortu
ièu ògghiu quiddhe ca porti a’mpiettu”
a ddu te pizzecàu ca nu’ se vite
sutt’a lu canalettu te lu core
lassatila ballare ca e’ tarantata
ca porta ‘na taranta
(na saiètta cu la bampa)
ca porta ‘na taranta sutta a lu pete.

[Quandu te llài la facce]
(popolare)

Quandu te llài la facce la matina
l’acqua, Ninella mia, nu’ lla mènare,
ca ‘ddu la mìni tìe nasce nna spina,
nna rosa e nnu rusieddhu pe’ ‘ndurare.
Poi passa lu speziale e ‘nde la scima,
metecine ‘nde face pe’ ssanare,
mo’ pe’ ssanare le ferite mèi
ca su’ d’amore e nu’ sananu mai.

[‘Ntoni, ‘Ntoni]

Ntoni, ‘Ntoni, percé si’ muertu
pane e miéru nu’ te mancà
le marangiane le tenì all’ertu
Ntoni, ‘Ntoni, percé si’ muertu.

[E chiangìti, tutte chiangìti]

E chiangìti, tutte chiangìti
tutte, tutte ìmu te tìre
ci tène mamma, ci tène soru
ci tène frati, oppuru lu sìre.

[La cerva]

Nu giurnu andài a caccia alla foresta,
rretu lu boscu te Ninella mia,
truài na Cerva e ni troncài la testa,
morta nu’ bbera e lu sangu scurrìa
se ‘nfaccia la patruna te la fenèscia,
non ccitere la cerva percé è mia”.
Enutu nu’ suntu cu ccìu la cerva
ièu su’ b’ènutu cu tte pìgghiu a tie”.

[Nu’ mme chiamati cchiùi donna Sabella]

Nu’ mme chiamati cchiùi donna Sabella,
chiamatime Sabella sventurata,
mo’ ca àggiu persu Napuli e Messina,
Terra te Roca e la Basilicata.



Musica Folk Leccese


Lu posperu
(Grimaldi-Barone)

Ulìa cu sàcciu propriu cce te sienti
se sienti numenare quarche stria
pierdi la capu e nu’ capisci nienti
te minti a ‘mmienzu cumu la sciuetìa
la fimmena te osce nu’ sse duma
figurate poi a tìe cce te cumbina
lu fuecu te l’amore nu’ sse dduma
cu ‘nnu posperu fiaccu te cucina…

rit.:
Ma cce buei cu l’anni toi
cussì bbecchiu e scumbenatu
nci òle fuecu ‘mpezzecatu
nci òle fuecu ‘mpezzecatu
pe’ le fimmene te mòi
e lu tòu già se sta spiccia
e ièu puru su’ sicuru
se lu posperu nu’ ‘mpiccia
te ‘nde bbinchi stai a lu scuru…
te ‘nde bbinchi stai a lu scuru…

Ulìa cu te convinci ca à spicciatu
faci lu giovanottu comu a nùi
ma tìe si de lu sièculu passatu
pe’ tìe nu’ ‘nc’e’ de fare propriu cchìui
perciò te puèti mintere li cchiali
cu biti mègghiu ma t’à stare cìttu
bisogna te convinci ca nu’ ‘mbàli
cu te licchi li musi e tiri rittu

L’arcu te Pratu
(Corallo-Corallo)

Inne rre Ferdinandu all’arcu te Pratu
lu sindacu tisse presciatu:
Maestà, quistu è l’arcu”
e iddhu te bottu respuse “che me ne fotto!”
e de tale momentu
rùmase alla storia
sta frase ca cantu cu boria
e ùi puru cantati cu mie stu sturnellu
ca dènta ddaveru chiù bellu

rit:
Sìmu leccesi core presciatu
sòna maestru arcu te Pratu

La culonna alla chìazza te sìeculi àusata
la òsera a ’nforza spustata
santu Ronzu perieddhu s’à fattu capace
ca nuddhu aqquai làssanu a ‘mpace
da quei libertini Fanfulla e Peppalu
fujiu Garibaldi a cavallu
e lu Santu ce à ddire “mo’ è miu lu pasticciu
ma basta ca a ’nterra nu’ spicciu”

rit.
La uagnona te mòi, tutta quanta pittata
nci tène a nu’ bessere asata
ma lu sforzu lu face, se quarche càrusu
àe prima nì stuscia lu musu
pigghiànduci gustu lu scrupulu passa
e ‘ntorna ‘mbrazzare se làssa
e poi rite cuntenta uardandu l’amatu
quandu èsse te facce ‘nquacchiatu.

Miéru
(Ingrosso - Petrachi)

Quanti bicchieri te miéru me bbiu
tanti pensieri te capu me llèu

rit.:
Miéru miéru miéru là là
quanti culuri me faci cangià

Cu mienzu quintu suntu nu cardillu
cu mienzu litru me sentu già brillu

Lu mègghiu dottore è lu cantinieri
te llèa te capu tutti li pensieri

ièu la chiamu e iddha nu’ bene
ièu la chiamu e iddha nu’ bene
ièu la chiamu e iddha nu’ bene
dha faccitosta
e nà nà ni ‘nde fujimu
e nà nà ni ‘nde fujimu
mo’ tutti ddoi

ièu la mintu e iddha nu’ trase
ièu la mintu e iddha nu’ trase
ièu la mintu e iddha nu’ trase
ccene? La chìai alla porta

rit.
Quandu la sìra a ccasa me ‘ncogghìu
nu’ ‘nci la fazzu mancu mme spogghìu

rit.
Ci la fatìa se chiama cucuzza
Mamma che puzza mamma che puzza.


Fìgghi te Lecce
(Bruno Petrachi)

Mienzu la chiazza la sìra se parla te calciu
se tàgghia e se sfila
lu presidente Jurlanu cu nni porta in A
n’à pigghìati pe’ manu

rit.:
Fìgghi te Lecce nùi sìmu
cantamu la rasta retendu a ci ùlimu
scherzandu, senza ‘nzurtamu
menamu la petra e scundimu la manu

Mentre sta faci l’amore cu iddha ‘nfacciata
te rìte lu core
ma poi nna sorte maligna te cate nna rasta
e te scascia la tigna
rit.
ddha capricciosa te strìa chiamata Rusiana
te nui se rètia
ma la tradèra l’amiche, Restàu senza zzìtu
e ‘nna pàuta te fiche

rit.
A lu ìntisette su’ risi tìe fuji e te pigghi
Dhi quattru turnisi
Ma quandu ìessi tolori te nanzi e te retu
Nci su’ creditori.


Lecce Gentile
(Pizzi-Preite)

Luna ca’ uàrdi, ìentu ca’ sienti
erba te campu stelle lucenti
rose te màggiu ca’ frische ‘ndurati
comu li àsi ca iddha m’à dati
nc’ete nnu core pacciu te amore
Lecce gentile e beddha ògghiu cu cantu
quiddhu ca me sta sentu intr’a lu core
nnu paradisu ‘nterra si’ pe’ mie
tuttu me pare beddhu a’nturnu a tìe
cantu nna beddha strìa ca’ passa e tice:
Rusciuli russi, ci òle rusciuli”
oh Lecce t’amu tantu e su’ felice
Cantu nna beddha strìa ca’ passa e tice:
Rusciuli russi, ci òle rusciuli”
O Lecce t’amu tantu e su’ felice.

Ièu Però
(Gino Ingrosso)

Ài ulùti balli, séni e canti
l’amore miu nu’ te piacia
trùasti lussi, e sordi tanti
la vita tòa, ce frenesia

rit.:
Ièu però…
nu’ t’ìa mancatu nnu momentu
nu’ me ‘nd’ìa sciutu ma scuntentu
se quarche fìata ì tittu no
Ièu però...
nu’ t’ìa mai tertu nu capiddhu
nu’ t’ìa mandata… ‘mbrazze a iddhu
nu’ t’ìa lassata… ièu no
Mo’ c’à turnata e me sta prèi
ce t’àggiu fare, beddha mia
nu’ simu mancu chiùi ddo strei
e ièu nu’ pozzu cangiare via…

Tangu leccese
(Gino Ingrosso)

St’ebuca de crisi e de cunsumi
è comu nu richiamu alli cuntrasti
quandu t’à crisu tìe cce t’à cattatu
mancu te giri e già t’ànu ‘mprosatu…
Tangu, tangu leccese
tangu te quattru sordi e te ogni mese
te quandu tornu a casa cu lla paca
nu’ mmancu rrìu già s’à spicciata…

rit:
Tangu, tangu leccese
tangu te li pinzieri e te le spese
ma ièu pìgghiu lu trenu cra’ matina
tròu nu rimediu, na metecina

Però timme tìe a ddu àggiu scire
stu cielu cu stu mare àggiu llassare
l’amici, la gente ce ànu dire
ca pe’ lli sordi l’àggiu abbandunare

Tangu, tangu leccese
tangu te quattru sordi e te stu core
stu core ca nu’ sape mai tratire
aqquai à natu, aqquai à murire

rit.
Però timme tìe a ddu àggiu scire
stu cielu cu stu mare àggiu llassare
l’amici, la gente ce ànu dire
ca pe’ lli sordi l’àggiu abbandunare

Tangu, tangu leccese
tangu te quattru sordi e de stu core
stu core ca nu’ sape mai tradire
aqquai à natu, aqquai à murire.

Nu’ ni lassamu chìui
(Gino Ingrosso)

Se manchi a casa tìe,
manca lu sule
è comu ‘nna poesia…
senza palore
però se terni tìe,
torna l’amore...
e ièu comu ‘nna fìata
pòzzu cantare

Nu’ ni lassamu chiùi
perduname se puei
sta vita è già difficile
a doi è chiù sopportabile
nu’ ni lassamu chiùi
nu’ te nde scire mai
ca sulu perdu l’anima
nu’ bagghiu la metà

Mo’ tìe,
nu’ chiangere cu mie
nui ddòi,
nu’ n’ìmu persi mai
nd’ ìmu passate tante,
nu’ ni lassamu chìui

Ha stata ‘nna paccìa
sta luntananza
ca dopu tantu bbene,
restammu senza
se campa picchi e nui,
st’indifferenza
cangiamula te mòi,
cu ‘nna speranza.

Maestrina
(Eupremio Fersino)

Quandu so’ ‘ndato alla scola serale lo venti o lo trent’anni fa
leggevo e facevo, con facilità, li cunti e le lettre d’amor
o cara mia cara maestra, quel tempo non pozzo scordar
non basto di mai ringraziare per quanto ho imparato soltanto da te

rit.:
Maestrina, di sera e di mattina io penso a te… a te
maestrina, mi sento ‘nno ‘mbriaco se penso a te… a te
quando me minto co scrivo mi treman la mano… a me
le ‘ntrame, lo core lo figato sento torcire… a me

Ma quarche volta io penso intra a mmie
la mia maestra m’ha fatto ‘mpaccire
comu àggiu fare, ce cosa àggiu dire… ma io non lo so
nzomma su’ pacciu, nu’ bisciu, nu’ sentu
me mangiu la capu e cchiù fessa dàventu solo per te
prima mme curcu, cu pozzu durmire
me fazzu nnu mienzu te miéru
ma comu mi sveglio, lo primo pensiero
è quello di scrivere a te
o cara mia cara maestra adesso mi treman la mano
sul letto ièu tocca bàu chianu, non voglio cu fazzu
scarbocchi per te

rit.
Quante palore con questa presenta ulìa cu te scrivo stasera
ma basta nna sula palora sincera è come la spada nel cuor
o cara mia cara maestra, per te non mi trovo ‘nzurato
mi firmo con nome e cognome Gustavo Bruciato
d’amore per te.

Alè alè Santu Ronzu
(Gino Ingrosso)

Alè Alè… santu Ronzu
alè alè santu Ronzu
zicca llenta, svita, stringi
mbrugghia, sprugghia, sali scindi

Molla la catina,
tàmme lu martìeddhu
ca’ stu santu Ronzu,
l’ìmu ffare beddhu

rit.:
Alè alè santu Ronzu
alè alè mo’ te conzu
mena, ‘nchioa lassa pìgghiu
molla, ‘ncarra, poeru fìgghiu

Llete ca sta bùcca,
chianu cu nu’ cascia
fatte chiù ddhammera,
cu nu’ te catiscia

Li profeti te ventura,
te ‘nduenàra la spentura (fuecu nèsciu)
se profetanu l’amore
a ddu spiccia stu vapore (fuecu nèsciu)

Alè alè… santu Ronzu
alè alè… fierru e bronzu
t’ànu fattu ‘nu pupazzu
tìe stai cittu e ièu me ‘ncazzu

Osce muta gente,
òle tegna usce
però annanzi a tìe
mai se fannu cruce.

Le lucerneddhe te santu Ronzu
(Pecoraro-Casarano)

Quandu a Lecce se ddumànu,
a ogne parte lucerneddhe
le caruse se ‘ncuntranu,
cu ddo mendule e nuceddhe
poi la sìra te la festa, nu girettu, e nu gelatu
nu carizzu a mmanulesta e nu àsu nnamuratu

rit.:
Lucerneddhe, lucerneddhe, coriceddhi ‘mpezzecati
le piccinne, tutte beddhe, tìempi chiùi ca nu’ turnati
quante cose rrecurdati, tìempi chiùi ca nu’ turnati
quante cose rrecurdati

Mòi lu lussu, lu splendore,
nc’e’ la moda, l’eleganza
Mòi nu’ ‘nc’ete chiùi stupore,
mòi nu’ ‘nc’ete chiùi sustanza
unghe russe e nèi finti, e li capiddhi, ossigenati
le vagnone tutte beddhe, piettu e fianchi limitati.

Ndaticchia mia
(Oronzo)

A Lecce nèsciu anticu e beddhu,
ete la festa dei tre santi
pe’ li leccesi tutti quanti,
ad ogne casa e’ festiceddha
ci canta a sulu o in compagnia,
ci se sta sente na sunata
Stàe tuttu Lecce in armunia,
ma sulu ièu, senza la ‘Ndata

rit.:
A du stai ‘Ndaticchia mia? ca te ògghiu tantu bene
ieni aqquai, facimu pace, nu’ me fare tante scene
ni nde sciamu alla festa, sutta razzu a core a core
Tìe pe’ mie si’ l’amore, a du stai ‘Ndaticchia mia?

Tutti la sànnu ca sta giru,
pe’ tìe ‘Ndaticchia, sprasematu
m’àggiu straccatu, nu’ me fìtu,
me sentu comu nu stunatu
a du t’à scusa beddha mia?
tutta la festa àggiu giratu
a santu Ronzu m’àggiu tatu,
te tròu a tìe, sulu pe’ mìe

rit.
Finalmente te truài, ièni aqquai ‘Ndaticchia mia
Tàmme nu àsu cu lu core, tutti e doi simu l’amore.



Funtana nòscia
(Pecoraro - Attisani Vernaglione)


Lu càutu a tutti tàe la malesciana,
ùi eniti e bu cutiti la frescura
ca atturnu la sta spande la Funtana,
nu’ se patisce aqquai nisciuna arsura
ma ci sentiti arsura intr’a lu core
e l’àutri atturnu a bùi fare l’amore…

rit.:
Comu ddo palumbieddhi a core a core, intra la stessa coppa sti carusi
nu’ l’iti ‘ntisi mai fare parole, nisciunu mai l’à bisti cu li musi
meratibu a st’esempiu ‘nnamurati, ca ogne do menuti bu ‘ncagnati

La sta sentiti insomma st’armunia?
ca esse te ddhe canne strinte a fasciu
mancu lu sènu d’organu ‘nci rria,
certu su’ scisi l’angeli quabbasciu
ma quantu bene face la Funtana,
lu core te ddefrisca e te lu sana

rit.

Lu Pascalinu tou
(Pizzi)

Ete bruttu ressu e curtu, cu lu nasu scrafazzatu,
cu li musi te presuttu, ma te tutte ‘nnamuratu
alla ‘Ndata te rimpettu, quando e’ cita la serata
ni bà sòna l’organettu, specie quando stàe curcata
e ni canta cu passione, la chiù bella serenata

rit.:
Lu Pascalinu tòu, te la sta face
e tìe te la sta sienti, intr’a lu liettu
la mègghiu serenata ci te piace,
mentre lu core te sta zumpa a ‘mpiettu
la ucca tìeni frisca comu rosa,
e zuccarata comu a nu confettu
cu tutta la passione ulìa te sposa,
lu Pascalinu tòu, cu l’organettu

Mo’ la ‘Nzina mo’ la ‘Ndata, mo’ la Rosa, mo’ la Sasa
ogne sìra cangia casa, ma nu’ cangia la sunata
ogne fimmena zitella, veduvella o maretata,
se la sente bella bella, specie quando stae curcata
e lu Pascalinu nèsciu ni la sòna n’àutra fiata.



Stornelli
di Giuseppe De Dominicis

Fior di giacinto
buona fanciulla te l’ho detto tanto
che l’amor mio è sincero e non è finto.

O margherita
per conquistare te, mia bella fata
al diavolo persi darei la vita.

O gelsomino
oh quante fiate t’ho disiata invano
sul tenebroso mio triste cammino.

O tuberosa
quanto potrà vederti la mia casa
redimita coi fior di lieta sposa.

O rosmarino
che io ti baci una sol volta almeno
bella come la luce del mattino.

Fior di giunchiglia
l’amore è come il fuoco de la paglia
con un poco di vento al cor s’appiglia.

O tulipano
sento la mia vita venir meno
ogni momento che ti sto lontano.