sabato 29 ottobre 2011

In un libro la vita di Luigi Paoli, cantastorie di Terra d'Otranto


Antonio Contaldo, Luigi Paoli. Cantastorie di Terra d’Otranto, Capone Editore, Lecce 2011
Pagine 80, € 10,00 - ISBN: 978-88-8349-154-2

Il Libro: Il rapporto fra la Terra d’Otranto e le proprie tradizioni è sempre stato controverso, forse a causa delle tante e diverse influenze subite, non essendo stata solo terra di passaggio, ma anche, in particolare nella seconda metà del Novecento, di ritorno.
Tali influenze, è inutile negarlo, hanno avuto ripercussioni importanti sul modo di approcciarsi allo studio delle cose popolari, da parte dell’intellighenzia locale: da una parte c’era chi, fino a pochi decenni addietro, considerava le proprie origini provinciali, da non prendere in considerazione o vergognarsene –Tito Schipa si conosce più per la notorietà internazionale che per ciò che ha dato al territorio (fu sua, nel 1921, la prima incisione di un brano generalmente considerato salentino, Quandu te llài la facce), mentre gli anni Ottanta sono stati totalmente cancellati– e, dall’altra, chi, di recente, inventando ex-novo una identità locale, ha creato sul folk un business non indifferente.
Nel mezzo ci sono i dati di fatto che, pur non rappresentando una verità assoluta, raccontano una storia diversa da quella che, penso in maniera forzosa, viene divulgata.
Tanti sono i protagonisti, spesso misconosciuti, che hanno contribuito a creare quella che mi piace considerare una vera e propria civiltà musicale, non necessariamente legata ad un contesto rurale, fra questi Luigi Paoli, meglio noto come Gigetto da Noha.
Luigi Paoli
Le vicende della sua vita coincidono, in larga parte, con quelle del popolo salentino del secondo dopoguerra, costretto a cercare fortuna lontano dalla propria terra. Gli emigranti non intraprendevano lunghi e improbabili viaggi solo per sfuggire alla fame, alle angherie o ai soprusi, piuttosto credo che il loro fosse un viaggio alla ricerca di una dignità che qui né lo Stato (se mai c’è stato), né i padroni hanno mai inteso riconoscere. Al ritorno, con i risparmi del lavoro all’estero, magari, avrebbero anche potuto costruire una casa e metter su famiglia.
Nella quotidianità da emigrante, il legame con le origini, si rafforzava: le tradizioni non solo rimanevano vive ma mutavano, per ricontestualizzarsi ed adattarsi a nuove condizioni che non erano quelle contadine del Salento.
In questo costante e orgoglioso richiamarsi alla terra madre, un ruolo fondamentale lo svolge il dialetto: utilizzato in ambienti intimi, come poteva essere il nucleo familiare, o ristretti, per meglio comprendersi con i paesani quasi a non volersi sentire totalmente alieni in un mondo che non apparteneva loro (e, forse, non li riconosceva se non come manodopera da sfruttare).
È in questo quadro che si inserisce il cantastorie Luigi Paoli che, con uno stile personale a metà strada fra urbano e rurale –uno degli anelli di congiunzione, l’avrebbe definito Darwin–, canta le storie di tutti (quei) giorni. Fatti di lontananze, di amori, di santi e madonne, di speranze perdute ma anche di denunce e di sberleffi verso i potenti (o presunti tali), come ben si potrà notare leggendo i testi, alcuni dei quali trascritti in spartito dall’autore del libro Antonio Contaldo, maestro di musica e compositore di formazione classica che, egregiamente, si è confrontato, con brani inizialmente ideati e sviluppati da Paoli con modalità compositive decisamente complesse, eterodosse e non per essere fissati. Questo ad ulteriore dimostrazione della passione con la quale Contaldo ha voluto rendere omaggio ad un personaggio rilevante del nostro folklore.
Quello che ne vien fuori, è uno scritto appassionato, una biografia antropologica proposta al lettore in maniera efficace che, pur nascendo senza pretese etnomusicologiche, diviene, nel complesso, un documento importante per far conoscere quella salentinità altra che non può essere immolata in nome del business.

dalla Premessa di federico capone


Antonio Contaldo
L’Autore: Antonio Contaldo, nato a Castiglione d’Otranto (Lecce) compie gli studi presso il Conservatorio di Lecce nel magistero di Clarinetto e a Firenze, dove  si diploma in Composizione e Strumentazione per Banda.
Abilitato all’insegnamento presso il Conservatorio di Potenza, si specializza in direzione d’orchestra sotto la guida di N. Hansalik Samale.
Più volte vincitore di concorsi nazionali di musica sinfonica per banda in varie città d’Italia, alterna l’insegnamento con la partecipazione a concerti. Ha fondato e diretto diversi complessi filarmonici tra i quali “Banda Azzurra” di Palazzo S.Gervasio (PZ) e “Città di Lavello” (PZ).
Iscritto alla SIAE come Autore e Compositore, figurano al suo cinquanta composizioni di vario genere e regolarmente depositate.
Ha pubblicato Suoni Smorzati. Un secolo di vita musicale a Palazzo S. Gervasio attraverso i dilettanti e i protagonisti, gli educatori e i musicisti (1997).

mercoledì 26 ottobre 2011


- Il massacro di Martano- 

L’antico castello feudale – Sorpresi da Ciro – Strage degli abitanti – Uccisione della principessa – L’unico superstite.

 Al processo fu domandato a Ciro quanti omicidi aveva commessi. «Chi lo sa!», rispose freddamente, «sessanta o settanta, forse!».
Uno di questi delitti fece speciale impressione sul generale Church. Non solo una volta egli ne narra i particolari, ma più volte vi fa allusione nelle sue memorie, né è da sorprendere se un tal fatto fece un’incancellabile impressione sulla mente del gentile e cavalleresco Inglese!
L’antico castello feudale di Martano, egli dice, è situato in cima alla pittoresca cittadella dello stesso nome e domina una stupenda veduta. Al di là delle onde azzurre si scorge l’opposta riva dell’Adriatico e le montagne albanesi in fondo; mentre, vicino, si estendono pianure verdi, boschi di ulivi, vigneti, fino ad Otranto, per quattordici miglia di estensione. Questo antico castello apparteneva alla principessa di Martano, bellissima e giovane orfana di venti anni, sola padrona di un grande patrimonio e di estesi possedimenti, che viveva fra i vassalli nella casa dei suoi antenati, adorata da chi la circondava, pura ed ingenua, felice e tranquilla, e come avrebbe potuto essere altrimenti?
Essa aveva molti pretendenti, ma per nessuno aveva parola d’incoraggiamento, dichiarando ridendo che le cure per i sottoposti, la compagnia del piccolo cuginetto (un orfanello di sette od otto anni), la gentile tutela del vecchio cappellano e della governante (entrambi suoi lontani parenti e a lei devoti) assorbivano tutto il suo tempo e i suoi pensieri e non desiderava altro.
Le case della città di Martano erano sparpagliate irregolarmente su e giù, poche sulla strada, essendo quasi tutte isolate e circondate da giardini. Un ripido sentiero conduceva al castello, situato a qualche distanza dal paese e separato da ogni altro edificio.
Un’oscura notte di dicembre del 1814, gli abitanti del castello di Martano si erano augurati scambievolmente l’abituale felice notte; il vecchio servo aveva, come di consueto, chiuso a chiavistello le grandi porte (poiché, sebbene il fosso fosse stato riempito, e i bastioni demoliti, rimaneva sempre il cortile cinto da muri e i grandi portoni) e tutti andavano pacificamente a letto. La giovane principessa, congedata la cameriera, si disponeva a riposare, quando sentì bussare alla porta dell’appartamento ed entrò la governante.
«Non dormite, cara figlia? Tanto meglio, poiché dovete vestirvi e scendere a ricevere Sua Eccellenza il comandante della provincia. Questo povero signore è stato trattenuto per via nel recarsi ad Otranto e chiede la vostra ospitalità. Volete Venire?».
«Certamente, mia cara», rispose la ragazza. «Mandatemi Lucia e vi seguirò subito». «Poiché», osserva il generale Church, «tale è l’ospitalità dei nobili, della borghesia e di tutti gli abitanti delle Puglie in genere, che, a qualunque ora arriviate alle loro case, siete sicuri di essere il benvenuto, e molto probabilmente il padrone di casa stesso scenderà a ricevervi».
Quindi, come cosa naturale, la principessa si preparava a discendere per andare a ricevere il suo ospite.
Ahimè! non era un viaggiatore attardato che bussava quella notte alla porta del castello, ma Don Ciro con una banda di quaranta o cinquanta birbaccioni, che facendosi credere il comandante della provincia scusava il suo arrivo a quell’ora, con l’oscurità della notte, coll’inclemenza del tempo, colle condizioni poco tranquille del paese, e colla distanza da Otranto. Fu introdotto: il vecchio servitore tolse gli enormi catenacci nel mentre ordinava agli altri servi sonnacchiosi di far presto, di prendere dei lumi e di avvertire la principessa. I suoi ordini furono tosto obbediti; i servi si affrettarono a discendere l’ampio scalone di pietra. Chi portava torce, chi attizzava il fuoco semispento, chi provvedeva cibi e vini, tutti ansiosi di mostrare il loro rispetto al comandante. Non appena aperte le porte si udì scalpitìo di cavalli e una banda di uomini armati s’inoltrò nella corte. Alcuni rimasero a cavallo a guardia della porta del castello, altri smontarono e seguirono il loro capo, che si faceva strada nell’ingresso. Non vi era possibilità di resistenza, né tempo nemmeno per dare l’allarme. Il vecchio servo fu ucciso nel mentre si avanzava desideroso di accogliere cortesemente gli inaspettati ospiti. Con una mano venivano tolte le torce dalle mani dei servi, mentre l’altra vibrava il colpo mortale. I cadaveri furono gettati nel cortile e gli assassini si precipitarono in casa uccidendo e saccheggiando. Il canuto cappellano, la vecchia governante, i servi, uomini e donne, nessuno fu risparmiato. Quanto alla vaga giovane principessa...
Essa era in camera, conversando allegramente con le sue cameriere, mentre si preparava a scendere per ricevere il comandante. Il rumore di passi sulla scala, un certo tramestìo e movimento attirò l’attenzione di una delle donne, che uscì di camera per vedere che cosa succedeva. In cima alla scala incontrò un uomo armato. Interrorita domandò.
«Che comandate, signore?».
«È questa la camera della principessa?».
«Sì, che cosa volete?».
«Niente».
Indi un grido e la poveretta cadde al suolo trapassata da un pugnale, mentre Don Ciro le passava dinanzi precipitandosi nella camera dove si teneva la principessa, pallida e tremante ma pur sempre padrona di sé, come si conviene a persona della sua nascita ed educazione, senza lagrime o preghiere e rispondendo al breve saluto di Ciro con cortese giovanile dignità. Il colloquio fu corto.   
«Principessa, sappiamo che avete una forte somma di danaro in casa. Dov’è?».
«Là, in quella cassaforte».
«Dove sono le chiavi?».
«Sulla tavola presso il camino».
«E i gioielli?».
«In quella cassetta sulla tavola».
«Ne avete altri?».
«Non in casa».
«Benissimo. Lasciatemi vedere».
Aprì la cassaforte, che conteneva 36,000 ducati, e gli occhi gli si iniettarono di sangue nel mentre faceva scorrere le monete d’oro fra le avide dita; aprì poi la cassetta dei gioielli e ne uscì perle, brillanti e rubini, anelli rilucenti e braccialetti d’oro, che avevano adornato molte belle e nobili dame di secoli passati; indi, orribile a dirsi, ma vero, esclamò ferocemente: «I filosofi ne dicono che il cane morto non può abbaiare», e col pugnale colpì la principessa e la cameriera.
Nel frattempo il resto della banda aveva finito il suo compito sanguinoso e, trovato vino e cibi e attizzate le legna nel focolare, se la godeva allegramente nella sala macchiata del sangue delle vittime, e tracannava sorsi di vino alla salute della «bella principessa».
Trascorso un po’ di tempo Don Ciro dette il segnale della partenza e, dopo qualche disputa sulla divisione delle spoglie, se ne andarono dando fuoco al mobilio della sala grande e chiudendo con cura le porte che davano sul cortile affinchè qualche passante non si accorgesse dell’accaduto.
Ma vi era stato un testimonio non visto del delitto.
Il ragazzo, cui accennammo, lo sventurato cuginetto e compagno della principessa, era stato svegliato dal grido di agonia della cameriera. La sua camera era attigua a quella della principessa ed egli correva da lei per sapere e per esser difeso nel momento appunto in cui Ciro apriva la porta. Il bambino, terrorizzato, si nascose sotto una tavola coperta da un pesante tappeto frangiato di seta e oro, e là rimase inosservato, spettatore allibito della scena.
Quanto vi rimanesse non potè dirlo, ma dal suo stupore lo scosse finalmente il fumo soffocante che cominciava a invadere l’appartamento. Tremante e coi denti che gli battevano, non osando volgere gli occhi al bianco ammasso che giaceva immobile al suolo, il povero piccino uscì dal nascondiglio e passò da una stanza silenziosa all’altra, troppo spaventato per discendere, finchè giunse ad una finestra abbastanza vicina al suolo per potersi calare nel giardino; indi, a tastoni, nell’oscurità, scalò un muro basso e si fece strada attraverso sentieri ripidi e sassosi fino alla casa del sindaco di Martano, dove giunse quando appena l’alba grigia di quel giorno d’inverno cominciava a risvegliare gli abitanti dal loro sonno. Senza fiato e tremante il fanciullo non potè dire altro se non che qualcosa di terribile era accaduto al castello: e, dato l’allarme, i cittadini, con a capo il sindaco, si precipitarono verso il castello, che stava là chiuso, in apparenza come se nulla fosse successo.
Ma le porte cedettero agli sforzi, si spalancarono e... quale orrendo spettacolo si presentò agli occhi dei primi che penetrarono nella grande sala d’ingresso! Non rimaneva altro da fare se non seppellire i morti e destinguere il fuoco. Tutti compresero chi era l’autore di quel nefando delitto. Tutti avevano amato la bella principessa e di tutto cuore avrebbero veduto punito l’assassino. Il piccino potè poi dare una descrizione di Don Ciro e dell’accaduto. Fra i mucchi di cadaveri distesi al suolo, un servo e la cameriera che per prima aveva parlato con l’abate respiravano ancora, e, portati in città e medicati con cura, vissero abbastanza per firmare una deposizione davanti ai magistrati. Ma qui ebbe termine l’affare. Ciro Annichiarico si era circondato talmente dalla fama di stregone che il popolo non osava nemmeno maledirlo ad alta voce per tema che gli spiriti a lui familiari non gli ripetessero ciò che era stato detto.

Tratto da: Riccardo Curch, Brigantaggio e società segrete, Capone Editore-Edizioni Del Grifo