sabato 31 agosto 2013

Da san Paolo a Dioniso. Appunti per un viaggio a ritroso nel tempo, fra tarantole e totem


Federico Capone, Da san Paolo a Dioniso, appunti per un viaggio a ritroso nel tempo fra tarantole e totem, disponibile con immagini e in pdf su http://www.issuu.com/sataterra e su http://www.academia.edu
Ogni parte di questo scritto può essere ripresa e rielaborata, purché venga citata la fonte originaria.

Intro
Da san Paolo a Dioniso pone le basi per un potenziale studio, più ampio e approfondito, attraverso il quale cercheremo di dare ulteriore dimostrazione di come il tarantismo sia legato al culto di Dioniso e, più in generale, di quanto il culto del figlio di Zeus fosse vivo nel Salento in era precristiana e di come si sia ricontestualizzato (cristianizzato, nel caso specifico, nel corso dei secoli). Per fare questo abbiamo cercato di intraprendere un percorso a ritroso: partendo da san Paolo, che qui rappresenta il risultato finale del processo di ricontestualizzazione / cristianizzazione, arriveremo a Dioniso, soffermandoci, durante questo viaggio nel tempo, sulla figura di Cristo che funge da anello di congiunzione fra il dio greco (ma catalizzatore, questo è tautologico, anche di altri culti e religioni) e il santo cristiano. Accenneremo i primi due passaggi, poiché saranno oggetto di prossimi articoli più approfonditi e puntuali, qui invece proponiamo quanto già pubblicato, rielaborandolo e ampliandolo, in Viaggio nel Salento Magico (Capone Editore 2013).

San Paolo di Tarso
Il percorso a ritroso comincia dunque da San Paolo di Tarso che, pur non avendo conosciuto Gesù ­ – la sua conversione fece seguito alla folgorazione avvenuta sulla via di Damasco ­ –, è considerato il principale ambasciatore del Vangelo fra le genti; proseguendo l’opera di evangelizzazione avviata da Gesù e dai discepoli, gli diviene complementare, fin quasi a sostituirne la figura. Il miracolo compiuto in vita a noi più noto e che lo lega al tarantismo fu compiuto sull’isola di Malta:

«II. Di fatto, acceso un gran fuoco, si ristorarono tutti dalla pioggia che cadeva e dal freddo».
«III. Avendo poi Paolo raccolto de’ sermenti e messili sul fuoco, una vipera uscì fuori, per il calore, e gli s’attaccò alla mano».
«IV. E quando i barbari videro la bestia pendergli dalla mano, dicevan tra loro: ‘Di certo, egli è un omicida, perché, sebbene scampato dal mare, la giustizia divina non lo lascia vivere’».
«V. Ma egli, scossa la bestia nel fuoco, non ne risentì male alcuno».
«VI. Coloro intanto s’aspettavano ch’egli dovesse gonfiarsi e cader morto a un tratto; ma, dopo che ebbero aspettato a lungo e visto che nessun male gliene veniva, mutarono parere, sino al punto di dire che era un Dio».

Il fatto di essere rimasto immune al morso del rettile velenoso lo fa divenire, pertanto, protettore dei tarantati, non bisogna infatti dimenticare che, da Palermo a Sidone (da Goffredo di Malaterra ad Alberto D’Aquisgrana) la tarantola non è per forza un ragno: può essere infatti uno scorpione, una scolopendra e finanche una lucertola, come ci dice Francesco Cacellieri nella sua Lettera.
Ecco dunque, in breve, cosa lega san Paolo al tarantismo ed a Cristo.

Attributi comuni a Cristo e a Dioniso
Ora cercheremo di analizzare il rapporto di Cristo con Dioniso, partendo da un paio di caratteristiche comuni (ma non sono le sole) che rivestono una importanza fondamentale per la nostra indagine:

1) ambedue sono concepiti dalla volontà di un dio, per mezzo di una mortale (Zeus - Semele Spirito Santo - Maria); tale generazione li fa rientrare nell’ambito divino piuttosto che in quello umano; tuttavia, il fatto di essere stati originati da una (non) unione, li pone in una situazione non univoca, di confine, fra morte e vita; da questa ambiguità scaturisce la loro duplicità ed il ciclo perenne vita-morte-rinascita, attraverso il sacrifico. Alcuni vangeli apocrifi parlano di un Cristo spirito ai piedi della Croce, intento ad osservare il suo corpo patire e perire, sacrificato dunque dagli uomini per gli uomini. Anche Dioniso, d’altronde, veniva immolato attraverso l’uccisione di un animale a lui sacro (perché lo incarnava), quali il toro o la capretta, per propiziarne la rinascita che coincideva, poi, con quella della natura. Questo ciclo, proprio di tutti i culti misterici, rappresenta un cammino verso la conoscenza;

2) altro elemento comune è la Croce, simbolo del martirio di Cristo e della cristianità, che, in sostannza era un palo conficcato nel terreno.
Il palo nel terreno simboleggia l’albero che dona la vita, ha molti riscontri nelle società arcaiche: anche Dioniso, come vedremo più fra poco, avrà un particolare legame con tronchi, pietre fitte e più in generale con i simboli totememici.

Dioniso nel Salento
Nicandro di Colofone, autore del II secolo a. C., narra nelle sue Metamorfosi che in un luogo della Messapia, chiamato dei “Sassi sacri” e probabilmente collocato presso i “massi della vecchia”, nel territorio di Giuggianello, ci fu una sfida fra gli indigeni e le ninfe Epimelidi:

«[…] Queste cose sono accadute molto tempo prima della spedizione di Ercole. In quel tempo si viveva con le pecore e i pascoli.
Si racconta dunque che, nella terra dei Messapi, presso il luogo chiamato dei Sassi sacri, apparvero le ninfe Epimelidi che guidavano le danze. I fanciulli messapi, osservandole danzare, abbandonarono le greggi e, dirigendosi verso di loro, affermarono di poter condurre ancor meglio le danze.
Le ninfe non gradirono questo discorso e si gareggiò tra le parti: i fanciulli pensavano di sfidare donne mortali, erano ignari di competere con esseri divini.
I giovinetti avevano una maniera di ballare semplice, rozza, come quella che si addice ai pastori, di contro, quella delle ninfe, si accresceva d’eleganza ad ogni passo.
Vinti i fanciulli così dissero loro: pazzi, avete sfidato le ninfe Epimelidi e, poiché siete stati sconfitti, sarete puniti. Fu così che i pastori messapi, nel luogo stesso ove si erano fermati, vicino al tempio delle ninfe, si mutarono in ulivi: ed oggi, si ode, di notte, una mesta voce proveniente dalla selva, quasi a lamentarsi. Il luogo si appella delle ninfe e dei fanciulli»

Analizziamo ora il racconto di Nicandro di Colofone.
Un primo indizio, per collocare il luogo e il tempo della battaglia ce lo fornisce sùbito l’autore: gli avvenimenti risalirebbero ad epoche remote «molto tempo prima della spedizione di Ercole» in un’età nella quale «si viveva con le pecore e i pascoli».
La spedizione alla quale si fa riferimento è quella che vede impegnato Ercole all’inseguimento dei Titani Leuterni, rèi di aver sfidato Zeus, definitivamente sconfitti a Santa Cesarea Terme.
Prima di arrivare a quella che oggi è Santa Cesarea Terme, sul promontorio della Japigia, Eracle sarebbe passato da Giuggianello e, presso i “Massi della vecchia”, avrebbe lasciato una sua impronta, individuata nel monolite lì presente la cui forma richiama quella di un piede dalle forme gigantesche; non solo, opera sua sarebbe anche il “Masso oscillante d’Ercole” del quale parla Aristotele nel De Mirabilibus Auscultationibus: «Nella Japigia, vi è una pietra talmente grande da non poter essere caricata su alcun carro. Tale masso è stato alzato e trasferito lì da Eracle, ed attualmente basta un solo dito per muoverlo», la tradizione popolare locale, lo identifica nel così detto “Furticiddhu della Vecchia e de lu Nanni” (“il fuso della strega e dell’orco”).
Ma torniamo alla leggenda, che esalta i comuni attributi fra le Epimelidi e Dioniso: ambedue sono protettori delle greggi, degli alberi ed hanno una spiccata attitudine al ballo, lo stesso Dioniso è sovente raffigurato nell’atto di uscire da un tronco d’albero così come ci dice anche Frazer (ma un riscontro l’abbiamo trovato anche in un vaso nolano, si veda immagine in copertina) nel Ramo d’Oro, quando afferma che «in un vaso la sua rozza effigie è rappresentata sorgente fuori da un alberetto o da un cespuglio. Si dice che un’immagine di Dioniso fosse stata trovata a Magnesia, sul Meandro (Magnesia al Meandro, ndr), in un platano rotto dal vento. Era il patrono degli alberi coltivati, gli si offrivano preghiere perché li facesse crescere, ed era venerato specialmente dagli agricoltori, sopratutto frutticoltori, che innalzavano la sua immagine nei loro frutteti in forma di un tronco d’albero naturale.
Si diceva che fosse stato lui a scoprire tutti gli alberi da frutto, specialmente i meli e i fichi. Lo chiamavano il multi-fruttifero il dio dai verdi frutti, colui che fa crescere i frutti.
Uno dei suoi titoli era il fecondo o il germogliante; vi era nell’Attica, a Patra, in Acaia, un Dioniso floreale e gli Ateniesi gli sacrificavano per la prosperità dei frutti della terra. Tra gli alberi gli era particolarmente sacro, oltre la vite, il pino.
L’oracolo di Delfo comandò ai Corinti di venerare un pino speciale “nello stesso grado del dio”. Ne fecero quindi due statue di Dioniso con le facce rosse e il corpo dorato. Nelle figurazioni artistiche il dio e i suoi adoratori portano comunemente un tirso con una figura in cima. Anche l’edera e il fico erano in special modo associati con lui. Nel demo attico di Acarne v’era un Dioniso dell’edera e a Nasso, dove i fichi si chiamavano meilicha, c’era un Dioniso Meilichio e il volto della sua statua era fatto di legno di fico».
Anche il posto dell’incontro, a nostro avviso, non è casuale: quei “Sassi sacri”, richiamano in toto la Terra d’Otranto, ricca in ogni dove di pietre cultuali (o pseudo-tali) siano esse dolmen o menhir. Questi ultimi, in particolare, potrebbero essere legati alla devozione del figlio di Zeus, non di rado rappresentato e venerato con una semplice pietrafitta (talvolta adorna di rami, a simboleggiare la natura che rifioriva, perché Dioniso era meilichio, ossia propizio, con particolare riferimento all’albero di fico, e dendrites, ossia dell’albero, nato dall’albero) e pertanto potrebbero essere una testimonianza del culto di Dioniso in Terra d’Otranto.
Qualcuno obietterà che molti menhir sono di origine medievale, così come sostiene, in maniera fondata, Paul Arthur. Pur tuttavia, da antropologi, non possiamo sottrarci dall’andare oltre il dato “fisico e visibile”, quindi architettonico-strutturale, e ricercheremo il valore più profondo di queste pietrefitte che, a nostro avviso, coincide col significato cultuale, retaggio, questo sì, di epoche remote.
Un esempio pratico di come il simbolo prevalga sulla funzione, in ambito religioso, è dato dai campanili e dalle campane che, col loro rintocco, segnalano e avvertono. Oggi se ne potrebbe benissimo fare a meno, poiché, a sostituire le campane, basterebbero degli altoparlanti, più economici e funzionali. Eppure resistono, dimostrazione contemporanea di come il simbolo prevalga sulla funzione: la stessa cosa crediamo sia avvenuta per i menhir che hanno, dalla notte dei tempi e fino al Medioevo, conservato il proprio significato cultuale.

Significato attuale del racconto di Nicandro
Ma quella tramandataci da Nicandro è foriera di un messaggio più che mai attuale per gli sprovveduti salentini: come allora pagarono a caro prezzo il voler sfidare un nemico presentatosi sotto mentite spoglie e furono tramutati in ulivi, così oggi, accogliendo la grande imprenditoria, straniera e non, si stanno lasciando trascinare in una sfida già persa in partenza.
A farne le spese, stavolta, potrebbero essere non solo gli uomini, ma anche gli alberi e, più in generale, il territorio, coperto da colate di cemento e da schiere di pannelli fotovoltaici, costretto a dare alloggio a rifiuti e gasdotti, per vedere infine i suoi abitanti tramutarsi in pale eoliche.
Rielaborato da Federico Capone, Viaggio nel Salento magico, (Capone editore, 2013)

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