lunedì 11 agosto 2014

TARANTA, IL VELENO DEI MILLE MISTERI / / / Articolo apparso su Nuovo Quotidiano di Puglia del 08/08/2014 (unplugged)


Sintomi del tarantismo

I sintomi del tarantismo sono tanti e generici, e simili a quelli indotti dal veleno dello scorpione, molto spesso il primo caso di contatto col ragno si ha all’inizio dell’estate e poi, ciclicamente, il male ritorna, si guarisce definitivamente solo con la morte della tarantola che ha iniettato il veleno.
Goffredo di Malaterra scrive di rigonfiamento del corpo, così come pure Alberto d’Aquisgrana.
Francesco Berni (1497-1535) nel suo Orlando Innamorato (11.7), descrive in rima segnali e cura: “Come in Puglia si fa contro al veleno / Di quelle bestie, che mordon coloro, / Che fanno poi pazzie da spiritati; / E chiamansi in vulgar tarantolati; / E bisogna trovar un che sonando / Un pezzo, trovi un suon che al morso piaccia; / Sul qual ballando, e nel ballar sudando / Colui, da sé la fiera peste caccia”.
Altre avvisaglie sono malinconia, spossatezza, apatia talvolta accompagnata da febbre violenta...
Ma come fare a capire, di fronte ad una sintomatologia così generica e varia, se c’è stato o meno il morso del ragno? I più pronti direbbero che basterebbe analizzare la ferita, ma questa non sempre è manifesta -ben prima di de Martino, evidentemente, si attribuiva al morso un valore più simbolico che reale-. A questo punto non si può che basarsi sull’esperienza degli specialisti, ossia i musici.
Il barbiere di Nardò Luigi Stifani (1914-2000), medico per antonomasia delle tarantate, basava la sua diagnosi sull’osservazione del paziente. In particolare cercava di capire già dallo sguardo se vi fosse la presenza di veleno, poi se la persona si trovasse in uno stato di eccitazione non comune e, infine dall’“elettricizzazione” (ossia da un movimento continuo) delle dita dei piedi.
Se il mezzo principale per guarire è il ballo, non è rara la presenza, nel rito terapeutico, dell’acqua; questa viene utilizzata in vari modi (una secchiata, l’immersione) ma anche, semplicemente, fatta bere, così come descrive Giuseppe de Dominicis/Capitano Black (1869-1905) nella poesia La tarantata: “Eh, l’arma mia!, la tocca a Galatina, / ca lu Santu cussine è cca ole priatu!... / Quantu rria dhai, stasira o crammatina, se binchia, / se binchia d’acqua e bi’ ca n’ha passatu.” (rid. eh, l’anima mia, deve andare a Galatina, poiché il Santo vuole esser pregato così, giusto il tempo che arrivi lì, stasera o domattina, si riempie d’acqua e vedi che poi tutto passa).
Questo richiamo costante all’acqua ci fornisce lo spunto per una riflessione. Il morso del ragno conduceva il paziente ad uno stato di talassofobia, ossia di rifiuto o di paura dell’acqua. Per associazione di idee, crediamo che il pellegrinaggio alla cappella di san Paolo, debba essere interpretato in quest’ottica, soprattutto alla luce del fatto che si pensava che l’acqua contenuta nel pozzo sito alle spalle della cappella, e murato negli anni Cinquanta per motivi igienico–sanitari, aveva il potere di guarire, provocando il vomito (a questo bisogna aggiungere che le serpare salentine, spesso vendevano delle bottigliette contenenti l’“acqua de santu Paulu” al pari della “Terra di Malta”.
Nota conclusiva Una sintesi dei sintomi e dei danni, talvolta permanenti, prodotti dal veleno tarantolino è data da Achille Vergari, nel suo Tarantismo (1839): “Se le sofferenze prodotte dal veleno delle tarantole non passano del tutto, restano dissesti cronici […] fra gli altri è una particolare malinconia e talvolta stupidezza, la quale dura sino a che il veleno tarantolino o le modificazioni indotte non vengono tolte […]. I fenomeni ipocondriaci dei tarantolati sono: desiderio dei luoghi solitari e dei sepolcri, di stendersi sui feretri a guisa dei morti, e di gettarsi nei pozzi. Le donne sogliono perdere la verecondia facendo delle cose oscene. Altri amano rotolarsi nel fango; altri trovano diletto nell’essere battuti, altri nella corsa a salti, da cui la definizione di morbus saltatorius. I colori spiegano diverse azioni sui tarantolati, piacevoli e sgradevoli, sino a farli divenire furiosi”, per quanto riguarda la ciclicità del fenomeno e la particolare sensibilità ai suoni, Vergari continua scrivendo che “I tarantolati, dopo essere guariti dall’acuzie morbosa, sogliono restare per qualche tempo malsani e, soprattutto, in una specie di vacuità. […]. Tutti i tarantolati, nel tempo della stagione calda, nonostante fuori dalle sofferenze, nell’accordo degli strumenti musicali sentono grate ed eccitanti emozioni.
I tarantolati dopo il parossismo non ricordano ciò che hanno fatto, non più appetiscono quel che desideravano, e paiono destati da profondo sonno o delirio”.



Rettili, scorpioni e ragni

Probabilmente per loro valenza ctonia, i rettili, gli scorpioni ed i ragni sono da sempre stati considerati appartenenti alla stessa specie, generati dal grembo della grande madre terra, così come narra Nicandro di Colofone, autore greco del II secolo a. C. nelle Teriache: “I rettili e i falangi dannosi, così come le vipere e gli innumerevoli esseri che sono gravame della terra, derivino dal sangue dei Titani”, feriti nella battaglia contro Zeus.
Alberto d’Aix (XII sec.), riferisce che durante la prima crociata, trovatosi l’esercito cristiano nei pressi di Sidone, venisse attaccato da una schiera di serpenti, chiamati Tarenta e che in molti, fra i feriti, “perissero a causa dell’agitazione e per una sete insopportabile” a causa del veleno di questi animali.
Ma se erano tarantole (tarenta), perché chiamarli serpenti e non invece ragni? Probabilmente perché  serpente, dev’essere interpretato alla maniera latina di serpo, serpis, ossia strisciare da cui serpens, –entis inteso genericamente come “strisciante”.
In tempi più recenti e in Italia, Francesco Cancellieri in una celebre Lettera sul tarantismo e sull’aria di Roma (1767), avvisa il destinatario, Dott. Koreff, di stare attento a non confondere la tarantola lucertola con la tarantola ragno, ma c’è anche l’esempio, di molto antecedente, di Niccolò Perrotti di Sassoferrato (1430-1480).
A questo bisogna aggiungere che, come fa notare in un interessante articolo Massimo Pittau, “in varie zone della Penisola e anche in Corsica col nome di tarantola si intende il geco o stellione [...] ma anche lo scorpione”.
Si arriva così nella Terra d’Otranto, dove l’accomunanza (o fusione), è testimoniata nel dialetto leccese da scarpiune che identifica il ragno mentre, lo scorpione vero e proprio, come specifica Antonio Garrisi nel Dizionario Leccese-Italiano, si chiama scarpiune cu lla cuta (scorpione con la coda).
Particolarmente interessanti, ai fini di dimostrare l’equivalenza fra rettili e ragni, nel tarantismo e più in generale nella cultura popolare, ci paiono due testimonianze raccolte da Luigi Chiriatti in Morso d’amore ossia quella del medico delle tarantate Luigi Stifani il quale afferma che gli è capitato “di suonare anche per 15 giorni di fila, a un certo Aurelio di Galatone, pizzicato da una biscia” e poi, ancora, quella di Maria di Uggiano La Chiesa, la classica “comare di paese” che racconta di un uomo che, mentre andava a raccogliere il tabacco, si trovò di fronte ad un “animale nero, come biscottato, tutto scaglie, ma grosse, come una specie di grosso serpente. Allora questo serpente ha alzato la testa per lanciarsi, e questo povero cristiano prese un ramo per colpirlo. Il serpente lo fiatò su tutte le parti scoperte. Dopo che se ne ritornò a casa, mani e viso erano gonfiati”.
Maria parla, all’inizio, di un indefinito animale nero, tutto scaglie. La descrizione pare quella di una scolopendra (che può essere rossa o scura), nota nel Salento come tagghiafuerfeci (tagliaforbici) ma anche, più genericamente, scarpiune (scorpione). Se così fosse il cerchio si chiuderebbe e ci troveremmo di fronte ad una ulteriore testimonianza di come tutti gli esseri serpenti, nel senso di striscianti, possano essere accomunati.
           


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