Sintomi del tarantismo
I sintomi del tarantismo
sono tanti e generici, e simili a quelli indotti dal veleno dello scorpione,
molto spesso il primo caso di contatto col ragno si ha all’inizio dell’estate e
poi, ciclicamente, il male ritorna, si guarisce definitivamente solo con la
morte della tarantola che ha iniettato il veleno.
Goffredo di Malaterra scrive di rigonfiamento del corpo, così come
pure Alberto d’Aquisgrana.
Francesco Berni (1497-1535) nel suo Orlando Innamorato
(11.7), descrive in rima segnali e cura: “Come in Puglia si fa contro al veleno
/ Di quelle bestie, che mordon coloro, / Che fanno poi pazzie da spiritati; / E
chiamansi in vulgar tarantolati; / E bisogna trovar un che sonando / Un pezzo,
trovi un suon che al morso piaccia; / Sul qual ballando, e nel ballar sudando /
Colui, da sé la fiera peste caccia”.
Altre avvisaglie sono malinconia, spossatezza, apatia talvolta
accompagnata da febbre violenta...
Ma come fare a capire, di fronte ad una sintomatologia così
generica e varia, se c’è stato o meno il morso del ragno? I più pronti
direbbero che basterebbe analizzare la ferita, ma questa non sempre è manifesta
-ben prima di de Martino, evidentemente, si attribuiva al morso un valore più
simbolico che reale-. A questo punto non si può che basarsi sull’esperienza
degli specialisti, ossia i musici.
Il barbiere di Nardò Luigi Stifani (1914-2000), medico per
antonomasia delle tarantate, basava la sua diagnosi sull’osservazione del
paziente. In particolare cercava di capire già dallo sguardo se vi fosse la presenza
di veleno, poi se la persona si trovasse in uno stato di eccitazione non comune
e, infine dall’“elettricizzazione” (ossia da un movimento continuo) delle dita
dei piedi.
Se il mezzo principale per guarire è il ballo, non è rara la
presenza, nel rito terapeutico, dell’acqua; questa viene utilizzata in vari
modi (una secchiata, l’immersione) ma anche, semplicemente, fatta bere, così
come descrive Giuseppe de Dominicis/Capitano Black (1869-1905) nella poesia La
tarantata: “Eh, l’arma mia!, la tocca a Galatina, / ca lu Santu
cussine è cca ole priatu!... / Quantu rria dhai, stasira o crammatina, se
binchia, / se binchia d’acqua e bi’ ca n’ha passatu.” (rid. eh, l’anima mia,
deve andare a Galatina, poiché il Santo vuole esser pregato così, giusto il
tempo che arrivi lì, stasera o domattina, si riempie d’acqua e vedi che poi
tutto passa).
Questo richiamo costante all’acqua ci fornisce lo spunto per una
riflessione. Il morso del ragno conduceva il paziente ad uno stato di
talassofobia, ossia di rifiuto o di paura dell’acqua. Per associazione di idee,
crediamo che il pellegrinaggio alla cappella di san Paolo, debba essere
interpretato in quest’ottica, soprattutto alla luce del fatto che si pensava
che l’acqua contenuta nel pozzo sito alle spalle della cappella, e murato negli
anni Cinquanta per motivi igienico–sanitari, aveva il potere di guarire,
provocando il vomito (a questo bisogna aggiungere che le serpare salentine,
spesso vendevano delle bottigliette contenenti l’“acqua de santu Paulu” al pari
della “Terra di Malta”.
Nota conclusiva Una sintesi
dei sintomi e dei danni, talvolta permanenti, prodotti dal veleno tarantolino è
data da Achille Vergari, nel suo Tarantismo (1839): “Se le sofferenze
prodotte dal veleno delle tarantole non passano del tutto, restano dissesti
cronici […] fra gli altri è una particolare malinconia e talvolta stupidezza,
la quale dura sino a che il veleno tarantolino o le modificazioni indotte non
vengono tolte […]. I fenomeni ipocondriaci dei tarantolati sono: desiderio dei
luoghi solitari e dei sepolcri, di stendersi sui feretri a guisa dei morti, e
di gettarsi nei pozzi. Le donne sogliono perdere la verecondia facendo delle
cose oscene. Altri amano rotolarsi nel fango; altri trovano diletto nell’essere
battuti, altri nella corsa a salti, da cui la definizione di morbus
saltatorius. I colori spiegano diverse azioni sui tarantolati, piacevoli e
sgradevoli, sino a farli divenire furiosi”, per quanto riguarda la ciclicità
del fenomeno e la particolare sensibilità ai suoni, Vergari continua scrivendo
che “I tarantolati, dopo essere guariti dall’acuzie morbosa, sogliono restare
per qualche tempo malsani e, soprattutto, in una specie di vacuità. […]. Tutti
i tarantolati, nel tempo della stagione calda, nonostante fuori dalle
sofferenze, nell’accordo degli strumenti musicali sentono grate ed eccitanti
emozioni.
I tarantolati dopo il parossismo non ricordano ciò che hanno
fatto, non più appetiscono quel che desideravano, e paiono destati da profondo
sonno o delirio”.
Rettili, scorpioni e ragni
Probabilmente per loro valenza
ctonia, i rettili, gli scorpioni ed i ragni sono da sempre stati considerati
appartenenti alla stessa specie, generati dal grembo della grande madre terra,
così come narra Nicandro di Colofone, autore greco del II secolo a. C. nelle Teriache:
“I rettili e i falangi dannosi, così come le vipere e gli innumerevoli esseri
che sono gravame della terra, derivino dal sangue dei Titani”, feriti nella
battaglia contro Zeus.
Alberto d’Aix (XII sec.), riferisce
che durante la prima crociata, trovatosi l’esercito cristiano nei pressi di
Sidone, venisse attaccato da una schiera di serpenti, chiamati Tarenta e
che in molti, fra i feriti, “perissero a causa dell’agitazione e per una sete
insopportabile” a causa del veleno di questi animali.
Ma se erano tarantole (tarenta),
perché chiamarli serpenti e non invece ragni? Probabilmente perché serpente, dev’essere
interpretato alla maniera latina di serpo, serpis, ossia strisciare da
cui serpens, –entis inteso genericamente come “strisciante”.
In tempi più recenti e in Italia,
Francesco Cancellieri in una celebre Lettera sul tarantismo e sull’aria di
Roma (1767), avvisa il destinatario, Dott. Koreff, di stare attento a non
confondere la tarantola lucertola con la tarantola ragno, ma c’è anche
l’esempio, di molto antecedente, di Niccolò Perrotti di Sassoferrato
(1430-1480).
A questo bisogna aggiungere che,
come fa notare in un interessante articolo Massimo Pittau, “in varie zone della
Penisola e anche in Corsica col nome di tarantola si intende il geco o stellione
[...] ma anche lo scorpione”.
Si arriva così nella Terra
d’Otranto, dove l’accomunanza (o fusione), è testimoniata nel dialetto leccese
da scarpiune che identifica il ragno mentre, lo scorpione vero e
proprio, come specifica Antonio Garrisi nel Dizionario Leccese-Italiano,
si chiama scarpiune cu lla cuta (scorpione con la coda).
Particolarmente interessanti, ai
fini di dimostrare l’equivalenza fra rettili e ragni, nel tarantismo e più in
generale nella cultura popolare, ci paiono due testimonianze raccolte da Luigi
Chiriatti in Morso d’amore ossia quella del medico delle tarantate Luigi
Stifani il quale afferma che gli è capitato “di suonare anche per 15 giorni di
fila, a un certo Aurelio di Galatone, pizzicato da una biscia” e poi, ancora,
quella di Maria di Uggiano La Chiesa, la classica “comare di paese” che
racconta di un uomo che, mentre andava a raccogliere il tabacco, si trovò di
fronte ad un “animale nero, come biscottato, tutto scaglie, ma grosse, come una
specie di grosso serpente. Allora questo serpente ha alzato la testa per
lanciarsi, e questo povero cristiano prese un ramo per colpirlo. Il serpente lo
fiatò su tutte le parti scoperte. Dopo che se ne ritornò a casa, mani e viso
erano gonfiati”.
Maria parla, all’inizio, di un
indefinito animale nero, tutto scaglie. La descrizione pare quella di una
scolopendra (che può essere rossa o scura), nota nel Salento come tagghiafuerfeci
(tagliaforbici) ma anche, più genericamente, scarpiune (scorpione). Se
così fosse il cerchio si chiuderebbe e ci troveremmo di fronte ad una ulteriore
testimonianza di come tutti gli esseri serpenti, nel senso di striscianti,
possano essere accomunati.
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