La tarantola di Puglia (unplugged)
Ernesto de Martino (1908-1965)
rimane talmente colpito dalla descrizione degli incresciosi effetti causati dal
morso della taranta fornita da Leonardo da Vinci (1452-1519) da
ritenerla degna di aprire La terra del rimorso (1961). A detta dello
scienziato toscano, quel ragno, inoculando il suo veleno nell’uomo, mantiene lo
sventurato “nel suo proponimento, cioè quello che pensava quando fu morso”.
Questa era una credenza molto rinomata fra il XV e il XVI secolo, e trova
un’illustre precedente annotazione nell’Opus de venenis (composto fra il
novembre del 1424 ed il maggio del 1426, ma pubblicato per la prima volta in
Venezia nel 1492) di Sante Ardoini. Il medico pisano, descrive gli “accidenti”
causati dalla punzione, da quelli comuni, inappetenza, dolore di stomaco,
vomito a quello più singolare, ripreso poi da Leonardo da Vinci, che vuole che
fino a quando il veleno non è espulso dal corpo, il malcapitato rimanga nello
stesso stato d’animo in cui si trovava al momento del fatto. Da segnalare anche
ciò che è scritto in una delle opere maggiori di Niccolò Perrotti arcivescovo
di Sassoferrato (1430-1480), Cornucopiae sive latinae linguae commentarii;
qui l’autore si premura di specificare che ci sono due tipi di tarantole, una
rettile, lo Stellione, e l’altra, più propriamente della Puglia, che è invece
un ragno, e che, se si è pizzicati da quest’ultimo, si può anche morire. Sarà
poi Girolamo Mercuriale (1530-1606) nel suo Libro sui veleni, a
descrivere più approfonditamente le conseguenze del morso del falangio di
Puglia, simili a quelle causate dal morso dello scorpione e ne ribadisce la “solita”
peculiarità: “quando morde uno, quello rimane nello stato e nel modo di fare in
cui è stato punto finché il veleno non è stato espulso dal corpo, così che se
punge qualcuno che cammina, quello camminerà sempre, se sta saltando, sempre
salta, se sta ridendo sempre ride”, aggiungendo che “i rimedi per questo veleno
sono da ricercarsi presso gli abitanti della Puglia”.
Basterebbe questo per legare la
tarantola e tarantismo alla Puglia, ma ci sono anche voci discordi, come quella
del medico Francesco Serao
(1702-1783) che, nelle sue Lezioni accademiche sulla tarantola (1742),
ritiene improbabile finanche accostare il solo nome del ragno a Taranto,
liquidando tale etimologia come incolore. Probabilmente, se volessimo
pensar male, egli muove questa obiezione più per spirito di critica verso i
suoi predecessori e, in particolare, verso il suo predecessore Giorgio Baglivi
(1688-1707) il quale sostiene che “si chiama tarantola non perché questo
animale sia più velenoso in Taranto che negli altri paesi della Puglia, ma solo
perché al tempo dei Greci e dei Romani quella città era o più frequentata delle
altre, o più nobile, e però trovandosi in maggior numero malati afflitti da
questo veleno, questo animale trasse dunque il suo nome” (De Tarantula.
Dissertatio VI. De Anatome, morsu et effectibus -1695-, nella traduzione di
Raimondo Pellegrini).
Probabilmente era sfuggito, al
Serao, che già Goffredo di Malaterra nel De rebus gestis Rogerii...
(1100 circa) associa il nome di taranta alla Puglia. Infatti, l’esercito
normanno, che nel 1064 si accampa sul monte Pellegrino e viene molestato da
questi ragni, proveniva dalla Puglia.
Senza contare poi che, fra il XVI e
il XVII secolo, l’aracnide diviene identificativo della regione, tanto che
Cesare Ripa (1555-1645), immagina nella sua Iconologia (1593) “la Puglia
come una Donna di carnagione adusta che, vestita d’un velo sottile, abbia,
sopra d’esso, alcune tarantole, simili a ragni grossi […] starà detta figura in
atto di ballare” a questo aggiunge che avrà, al suo fianco, “diversi strumenti
musicali e, in particolare, un tamburello ed un piffero”. Poco più avanti egli
giustifica la presenza delle tarantole di diversi colori sul vestito della
donna poiché “animali noiosissimi e unici in questa Provincia”, attribuendo a
seconda del colore del ragno “diversi e strani accidenti” nel malcapitato che
dovesse incorrere nel loro morso e, la presenza degli strumenti perché il
veleno di questi animali si mitiga e si vince con la musica dei suoni […]”.
Abbiamo visto quindi che, almeno
dall’XI secolo, la tarantola è legata alla Puglia e a Taranto.
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