Federico
Capone, Da
san Paolo a Dioniso, appunti per un viaggio a ritroso nel tempo fra
tarantole e totem,
disponibile con immagini e in pdf su http://www.issuu.com/sataterra
e su http://www.academia.edu
Ogni
parte di questo scritto può essere ripresa e rielaborata, purché
venga citata la fonte originaria.
Intro
Da
san Paolo a Dioniso
pone le basi per un potenziale studio, più ampio e approfondito,
attraverso il quale cercheremo di dare ulteriore dimostrazione di
come il tarantismo sia legato al culto di Dioniso e, più in
generale, di quanto il culto del figlio di Zeus fosse vivo nel
Salento in era precristiana e di come si sia ricontestualizzato
(cristianizzato, nel caso specifico, nel corso dei secoli). Per fare
questo abbiamo cercato di intraprendere un percorso a ritroso:
partendo da san Paolo, che qui rappresenta il risultato finale del
processo di ricontestualizzazione / cristianizzazione, arriveremo a
Dioniso, soffermandoci, durante questo viaggio nel tempo, sulla
figura di Cristo che funge da anello di congiunzione fra il dio greco
(ma catalizzatore, questo è tautologico, anche di altri culti e
religioni) e il santo cristiano. Accenneremo i primi due passaggi,
poiché saranno oggetto di prossimi articoli più approfonditi e
puntuali, qui invece proponiamo quanto già pubblicato,
rielaborandolo e ampliandolo, in Viaggio
nel Salento Magico (Capone
Editore 2013).
San
Paolo di Tarso
Il
percorso a ritroso comincia dunque da San Paolo di Tarso che, pur non
avendo conosciuto Gesù – la sua conversione fece seguito
alla folgorazione
avvenuta sulla via di Damasco –, è considerato il principale
ambasciatore del Vangelo fra le genti; proseguendo l’opera di
evangelizzazione avviata da Gesù e dai discepoli, gli diviene
complementare, fin quasi a sostituirne la figura. Il miracolo
compiuto in vita a noi più noto e che lo lega al tarantismo fu
compiuto sull’isola di Malta:
«II.
Di fatto, acceso un gran fuoco, si ristorarono tutti dalla pioggia
che cadeva e dal freddo».
«III.
Avendo poi Paolo raccolto de’ sermenti e messili sul fuoco, una
vipera uscì fuori, per il calore, e gli s’attaccò alla mano».
«IV.
E quando i barbari videro la bestia pendergli dalla mano, dicevan tra
loro: ‘Di certo, egli è un omicida, perché, sebbene scampato dal
mare, la giustizia divina non lo lascia vivere’».
«V.
Ma egli, scossa la bestia nel fuoco, non ne risentì male alcuno».
«VI.
Coloro intanto s’aspettavano ch’egli dovesse gonfiarsi e cader
morto a un tratto; ma, dopo che ebbero aspettato a lungo e visto che
nessun male gliene veniva, mutarono parere, sino al punto di dire che
era un Dio».
Il
fatto di essere rimasto immune al morso del rettile velenoso lo fa
divenire, pertanto, protettore dei tarantati, non bisogna infatti
dimenticare che, da Palermo a Sidone (da Goffredo di Malaterra ad
Alberto D’Aquisgrana) la tarantola non è per forza un ragno:
può essere infatti uno scorpione, una scolopendra e finanche una
lucertola, come ci dice Francesco Cacellieri nella sua Lettera.
Ecco
dunque, in breve, cosa lega san Paolo al tarantismo ed a Cristo.
Attributi
comuni a Cristo e a Dioniso
Ora
cercheremo di analizzare il rapporto di Cristo con Dioniso, partendo
da un paio di caratteristiche comuni (ma non sono le sole) che
rivestono una importanza fondamentale per la nostra indagine:
1)
ambedue sono concepiti dalla volontà
di un dio, per mezzo di una mortale (Zeus - Semele Spirito Santo -
Maria); tale generazione li fa rientrare nell’ambito divino
piuttosto che in quello umano; tuttavia, il fatto di essere stati
originati da una (non) unione, li pone in una situazione non univoca,
di confine, fra morte e vita; da questa ambiguità scaturisce la loro
duplicità ed il ciclo perenne vita-morte-rinascita, attraverso il
sacrifico. Alcuni vangeli apocrifi parlano di un Cristo spirito
ai piedi della Croce, intento ad osservare il suo corpo
patire e perire, sacrificato dunque dagli uomini per gli uomini.
Anche Dioniso, d’altronde, veniva immolato attraverso l’uccisione
di un animale a lui sacro (perché lo incarnava), quali il toro o la
capretta, per propiziarne la rinascita che coincideva, poi, con
quella della natura. Questo ciclo, proprio di tutti i culti
misterici, rappresenta un cammino verso la conoscenza;
2)
altro elemento comune è la Croce, simbolo del martirio di Cristo e
della cristianità, che, in sostannza era un palo conficcato nel
terreno.
Il
palo nel terreno simboleggia l’albero che dona la vita, ha molti
riscontri nelle società arcaiche: anche Dioniso, come vedremo più
fra poco, avrà un particolare legame con tronchi, pietre fitte e più
in generale con i simboli totememici.
Dioniso
nel Salento
Nicandro
di Colofone, autore del II secolo a. C., narra nelle sue Metamorfosi
che in un luogo della Messapia, chiamato dei “Sassi sacri” e
probabilmente collocato presso i “massi della vecchia”, nel
territorio di Giuggianello, ci fu una sfida fra gli indigeni e le
ninfe Epimelidi:
«[…] Queste cose sono accadute molto tempo prima della spedizione di Ercole. In quel tempo si viveva con le pecore e i pascoli.
Si
racconta dunque che, nella terra dei Messapi, presso il luogo
chiamato dei Sassi sacri, apparvero le ninfe Epimelidi che guidavano
le danze. I fanciulli messapi, osservandole danzare, abbandonarono le
greggi e, dirigendosi verso di loro, affermarono di poter condurre
ancor meglio le danze.
Le
ninfe non gradirono questo discorso e si gareggiò tra le parti: i
fanciulli pensavano di sfidare donne mortali, erano ignari di
competere con esseri divini.
I
giovinetti avevano una maniera di ballare semplice, rozza, come
quella che si addice ai pastori, di contro, quella delle ninfe, si
accresceva d’eleganza ad ogni passo.
Vinti
i fanciulli così dissero loro: pazzi, avete sfidato le ninfe
Epimelidi e, poiché siete stati sconfitti, sarete puniti. Fu così
che i pastori messapi, nel luogo stesso ove si erano fermati, vicino
al tempio delle ninfe, si mutarono in ulivi: ed oggi, si ode, di
notte, una mesta voce proveniente dalla selva, quasi a lamentarsi. Il
luogo si appella delle ninfe e dei fanciulli»
Analizziamo
ora il racconto di Nicandro di Colofone.
Un primo indizio, per collocare il luogo e il tempo della battaglia ce lo fornisce sùbito l’autore: gli avvenimenti risalirebbero ad epoche remote «molto tempo prima della spedizione di Ercole» in un’età nella quale «si viveva con le pecore e i pascoli».
La spedizione alla quale si fa riferimento è quella che vede impegnato Ercole all’inseguimento dei Titani Leuterni, rèi di aver sfidato Zeus, definitivamente sconfitti a Santa Cesarea Terme.
Un primo indizio, per collocare il luogo e il tempo della battaglia ce lo fornisce sùbito l’autore: gli avvenimenti risalirebbero ad epoche remote «molto tempo prima della spedizione di Ercole» in un’età nella quale «si viveva con le pecore e i pascoli».
La spedizione alla quale si fa riferimento è quella che vede impegnato Ercole all’inseguimento dei Titani Leuterni, rèi di aver sfidato Zeus, definitivamente sconfitti a Santa Cesarea Terme.
Prima
di arrivare a quella che oggi è Santa Cesarea Terme, sul promontorio
della Japigia, Eracle sarebbe passato da Giuggianello e, presso i
“Massi della vecchia”, avrebbe lasciato una sua impronta,
individuata nel monolite lì presente la cui forma richiama quella di
un piede dalle forme gigantesche; non solo, opera sua sarebbe anche
il “Masso oscillante d’Ercole” del quale parla Aristotele nel
De
Mirabilibus Auscultationibus:
«Nella Japigia, vi è una pietra talmente grande da non poter essere
caricata su alcun carro. Tale masso è stato alzato e trasferito lì
da Eracle, ed attualmente basta un solo dito per muoverlo», la
tradizione popolare locale, lo identifica nel così detto
“Furticiddhu della Vecchia e de lu Nanni” (“il fuso della
strega e dell’orco”).
Ma
torniamo alla leggenda, che esalta i comuni attributi fra le
Epimelidi e Dioniso: ambedue sono protettori delle greggi, degli
alberi ed hanno una spiccata attitudine al ballo, lo stesso Dioniso è
sovente raffigurato nell’atto di uscire da un tronco d’albero
così come ci dice anche Frazer (ma un riscontro l’abbiamo trovato
anche in un vaso nolano, si veda immagine in copertina) nel Ramo
d’Oro,
quando afferma che «in un vaso la sua rozza effigie è rappresentata
sorgente fuori da un alberetto o da un cespuglio. Si dice che
un’immagine di Dioniso fosse stata trovata a Magnesia, sul Meandro
(Magnesia al Meandro,
ndr),
in un platano rotto dal vento. Era il patrono degli alberi coltivati,
gli si offrivano preghiere perché li facesse crescere, ed era
venerato specialmente dagli agricoltori, sopratutto frutticoltori,
che innalzavano la sua immagine nei loro frutteti in forma di un
tronco d’albero naturale.
Si
diceva che fosse stato lui a scoprire tutti gli alberi da frutto,
specialmente i meli e i fichi. Lo chiamavano il multi-fruttifero il
dio dai verdi frutti, colui che fa crescere i frutti.
Uno
dei suoi titoli era il fecondo o il germogliante; vi era nell’Attica,
a Patra, in Acaia, un Dioniso floreale e gli Ateniesi gli
sacrificavano per la prosperità dei frutti della terra. Tra gli
alberi gli era particolarmente sacro, oltre la vite, il pino.
L’oracolo
di Delfo comandò ai Corinti di venerare un pino speciale “nello
stesso grado del dio”. Ne fecero quindi due statue di Dioniso con
le facce rosse e il corpo dorato. Nelle figurazioni artistiche il dio
e i suoi adoratori portano comunemente un tirso con una figura in
cima. Anche l’edera e il fico erano in special modo associati con
lui. Nel demo attico di Acarne v’era un Dioniso dell’edera e a
Nasso, dove i fichi si chiamavano meilicha, c’era un Dioniso
Meilichio e il volto della sua statua era fatto di legno di fico».
Anche
il posto dell’incontro, a nostro avviso, non è casuale: quei
“Sassi sacri”, richiamano in toto
la Terra d’Otranto, ricca in ogni dove di pietre cultuali (o
pseudo-tali) siano esse dolmen o menhir. Questi ultimi, in
particolare, potrebbero essere legati alla devozione del figlio di
Zeus, non di rado rappresentato e venerato con una semplice
pietrafitta (talvolta adorna di rami, a simboleggiare la natura che
rifioriva, perché Dioniso era meilichio, ossia propizio, con
particolare riferimento all’albero di fico, e dendrites, ossia
dell’albero, nato dall’albero) e pertanto potrebbero essere una
testimonianza del culto di Dioniso in Terra d’Otranto.
Qualcuno
obietterà che molti menhir sono di origine medievale, così come
sostiene, in maniera fondata, Paul Arthur. Pur tuttavia, da
antropologi, non possiamo sottrarci dall’andare oltre il dato
“fisico e visibile”, quindi architettonico-strutturale, e
ricercheremo il valore più profondo di queste pietrefitte che, a
nostro avviso, coincide col significato cultuale, retaggio, questo
sì, di epoche remote.
Un
esempio pratico di come il simbolo prevalga sulla funzione, in ambito
religioso, è dato dai campanili e dalle campane che, col loro
rintocco, segnalano e avvertono. Oggi se ne potrebbe benissimo fare a
meno, poiché, a sostituire le campane, basterebbero degli
altoparlanti, più economici e funzionali. Eppure resistono,
dimostrazione contemporanea di come il simbolo prevalga sulla
funzione: la stessa cosa crediamo sia avvenuta per i menhir che
hanno, dalla notte dei tempi e fino al Medioevo, conservato il
proprio significato cultuale.
Significato
attuale del racconto di Nicandro
Ma
quella tramandataci da Nicandro è foriera di un messaggio più che
mai attuale per gli sprovveduti salentini: come allora pagarono a
caro prezzo il voler sfidare un nemico presentatosi sotto mentite
spoglie e furono tramutati in ulivi, così oggi, accogliendo la
grande imprenditoria, straniera e non, si stanno lasciando trascinare
in una sfida già persa in partenza.
A
farne le spese, stavolta, potrebbero essere non solo gli uomini, ma
anche gli alberi e, più in generale, il territorio, coperto da
colate di cemento e da schiere di pannelli fotovoltaici, costretto a
dare alloggio a rifiuti e gasdotti, per vedere infine i suoi abitanti
tramutarsi in pale eoliche.
Rielaborato
da Federico Capone, Viaggio
nel Salento magico,
(Capone editore, 2013)
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