Tarantismo,
un fenomeno minuscolo e complesso
“Potrà forse sembrare strano che un discorso così impegnato,
e che quasi promette di voler mettere mano a cielo e terra, possa prendere le
mosse da una minutissima vicenda regionale, anzi locale, della cui levità par
testimoniare il sorriso col quale a chi dà segni di agitazione immotivata
chiediamo celiando: ‘Ti ha morso la tarantola?’. Ma non tutte le cose che
abbiamo reso lievi meritavano di diventarlo, ed in ogni caso il ‘lieve’ ed il
‘grave’ non appartengono alle cose in sé, ma sono sempre di nuovo ridistribuibili
nella trama della realtà in funzione di certi ‘problemi presenti’ che stimolano
a scegliere il passato importante” (Ernesto de Martino, dalla Prefazione
a La terra del rimorso).
Per quanto
minuscolo, il tarantismo si svolge con dinamiche simili a quelle di qualsiasi
altra vicenda umana e proprio come fatto dell’uomo lo abbiamo voluto
descrivere, sicuri che questo taglio sia l’unico in grado di
ri-sentimentalizzare un fenomeno che appartiene al Salento ed alle sue genti,
nonostante da sempre abbia subìto l’aggressione da parte di forze non
propriamente interne (per sostrato culturale, per provenienza geografica e
altro ancora) che lo hanno trasformato, plasmato a seconda delle esigenze,
anche personali e/o del momento, analizzato fino all’osso e snaturato,
privandolo talvolta di quell’anima popolare che lo ha mantenuto in vita
fino ai giorni nostri.
Ma oltre che
minuscolo, il tarantismo è anche complesso: tutto sommato giovane, le origini
risalgono al basso Medioevo, affonda le radici nel mondo antico; esclusivo
della Puglia e di Terra d’Otranto, ha paralleli extraeuropei e, ancora,
collocato nel quadro dell’incontro fra Islam e cattolicesimo diviene
successivamente materia da argomentare con parametri della magia naturale e, più
in là, medici non meno che simbolico-tradizionali, da leggere in chiave
positivista o (neo)umanista o, ancora, con approccio antropologico e
sociologico... tutto ciò a conferma che ha uno svolgimento articolato, come
ogni cultura d’altronde, ed è per alcuni aspetti “vittima” del pensiero
dominante, per altri forma di resistenza a quello egemone.
Banalizzando, si
potrebbe immaginare questa storia come il tratto d’un fiume del quale non
scorgiamo né l’inizio né la fine ma, al massimo, parte degli infiniti rivoli
che da questo si diramano; sta a noi seguirne uno, non potendo né col nostro
sguardo, né con la nostra conoscenza, percorrerli tutti. La scelta scaturisce
dalla sensibilità personale e dal guardarsi attorno per capire se – e dove, e
come – questa manifestazione possa attualmente meglio collocarsi, dando per
scontato che ancor oggi sopravvive: una risposta l’abbiamo rintracciata
nell’aspetto musicale ed in particolare nel reggae+hip hop – precursori Georges
Lapassade e Piero Fumarola – e in quei giovani che danzano per liberarsi sotto
il palco del concertone finale della Notte della Taranta.
Fra il
tarantismo di ieri e quello di oggi, e poco prima del reggae+hip hop, c’è
un’altra esperienza “musicale” sulla quale ci siamo soffermati, ossia la
canzone dialettale urbana, perché anticipatrice di alcuni aspetti dell’evento
di Melpignano, fra i quali quello più preponderante è l’assoluta spensieratezza
con la quale la gente, nel folk-leccese come nella world-pizzica, si approccia
e vive l’esperienza sotto i palchi. Si aggiunga che la canzone dialettale
urbana, ieri nelle piccole sagre, oggi rispolverata anche a Melpignano,
contribuisce a liberare i presenti, seppur per poche ore, da ogni problema
piccolo o grande che sia; non poteva essere altrimenti in una Terra d’Otranto
dove qualsiasi momento catartico può essere ricondotto al tarantismo, come
confermano i fatti: ogni “minuscolo evento” è risultato, finale ma non
definitivo, del contesto nel quale si svolge – non si è forse partiti con le
tarantole sul monte Pellegrino a Palermo, per arrivare alla cappella di San
Paolo a Galatina e poi al reggae+hip hop nostrano? – Perché allora non cercare
un luogo, un modo, nel quale il rito oggi si rinnova? Solo in quest’ottica si
può comprendere quanto già scritto da Ernesto de Martino, cioè che il fenomeno,
ieri come oggi, è plasmato dalle stesse forze egemoni che lo studiano e lo
(de)scrivono, introducendo – e al tempo stesso portando all’esterno, pensiamo
alle fonti giunte in nostro possesso – di volta in volta “determinazioni
nuove” e “compromettendone efficacie antiche”. Ma aggiungiamo una nostra altra
constatazione: mentre il tarantismo viene modellato e descritto dall’esterno,
contemporaneamente, si rafforza grazie ai protagonisti che lo vivono e lo
mantengono in vita, adeguandolo a tempi e luoghi.
Questa continua
e rapida ricontestualizzazione spiazza un po’ tutti, non ultimi gli studiosi
che, di conseguenza, non riescono a “stare sul pezzo”; ciò contribuisce a non
ricercare e a non produrre, dando l’impressione che il tarantismo sia definitivamente
esaurito. Ecco il maggiore dei problemi di fronte ai quali ci siamo oggi
trovati: se già in precedenza lo studioso identificava il tarantismo come
relitto, e questo avveniva quando la “tradizione” era più “stabile”, ci
dovremmo sentire giustificati a considerarlo oggi definitivamente scomparso,
sol perché non ne cogliamo le trasformazioni? Dovremmo forse, in maniera
semplicistica e arrendevole, affermare tout court che “la tradizione è
tradimento”, perseverando in una azione dissacratoria che oggi, a differenza di
qualche ventennio addietro, non ha alcuna valenza ideologica ma serve piuttosto
per colmare e celare ben altri tipi di lacune?, o dovremmo piuttosto continuare
l’opera di de-sentimentalizzazione che vuole far “vivere” il tarantismo solo nelle
fonti? Nulla di tutto ciò, e col lavoro che segue offriamo alcuni strumenti per
navigare nuovi tratti di storia, nuove vie, fornendo una serie di
testimonianze già note nella prima parte, e letture nuove nella seconda, per
dimostrare che il tarantismo non si è esaurito.
Per dirla in una
parola, l’oggetto della ricerca, in storia non più che altrove, non si
esaurisce, si cerca... anche con l’osservazione.
Marzo
2016
fc